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La pandemia ci rende più altruisti o più egoisti?

  • Categorie: Cultura & Società
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Con l’emergenza Coronavirus, sulla stampa e sui media in generale è apparsa una moltitudine di immagini che rappresentano persone che organizzano canti collettivi, scrivono manifesti con parole di solidarietà e di incoraggiamento, appendono bandiere ai balconi, accendono fiammelle come segno di speranza, inviano doni a chi si prodiga per gli altri e partecipano a diversi episodi di solidarietà e a manifestazioni di unità sociale e carità.

Insomma, il virus che ci accomuna in un’unica sorte e apparentemente appiana le distanze e le ingiustizie sociali colpendo tutti, porta molti a illudersi che la pandemia ci abbia trasformato in fratelli, ci abbia insegnato ad amare il prossimo, ci abbia reso più buoni. Ma, se guardiamo la realtà più da vicino, ci sono già molti indizi che ci suggeriscono che l’essere umano non è cambiato e non cambierà così facilmente.

Forse, chi ha visto la morte in faccia e l’ha scampata, apprezzerà di più la vita e le piccole gioie che, nel nostro mondo frenetico, spesso passano inosservate. Di questo cambiamento abbiamo una spiegazione nel “principio della perdita”. Quando rischiamo di perdere qualcuno o qualcosa, o quando li abbiamo persi, si riattivano in noi i ricordi positivi legati ad essi. Solo in quel momento capiamo quanto ci erano cari, quanto erano preziosi e li carichiamo di un valore che prima non avevano. Ci basti come esempio, i numerosi elogi degli anziani fatti da quando si è diffuso il coronavirus che li ha resi la categoria più a rischio e che ha evidenziato la loro fragilità. Prima di allora, soprattutto quelli non autosufficienti ricoverati nelle residenze per anziani, erano perlopiù ignorati quando non venivano visti dalla società soprattutto come un problema e un costo sociale. Degli altri, dei nonni che accudivano i nipoti con genitori lavoratori, non sempre si apprezzava il ruolo sociale che svolgevano, abituati come si era a considerare socialmente utili, lavoratori e produttori di profitto, solo le persone che portano a casa uno stipendio – è l’eterno problema delle casalinghe il cui lavoro è sempre stato sottovalutato-.

Ma elogi, gratitudine, solidarietà ci saranno finché durerà il trauma subìto, finché rimarrà la memoria del rischio corso, poi torneremo a essere l’”homo duplex” egoista e altruista, animale e sociale al tempo stesso, che aveva teorizzato il primo sociologo della nostra storia: Emile Durkheim. La nostra parte primordiale e “animale”, ha come primo imperativo la nostra salvezza e quella della nostra famiglia. È la legge della sopravvivenza che non guarda in faccia a nessuno, “mors tua, vita mea”. Ancora in piena lotta contro il nemico comune e sconosciuto del virus, il fronte si spezza e, invece di coalizzarci per superarlo, vediamo l’altro con sospetto, come un pericolo per noi quando non lo additiamo come causa dei mali, verso gli stessi operatori sanitari ci sono stati episodi di intolleranza da parte di vicini di casa che li temevano infetti. Già all’inizio della pandemia si sono verificati casi di “assalto” ai supermercati per accaparrarsi cibo a detrimento di chi invece ne è rimasto senza. Si è tentato di raggiungere la propria casa e la propria famiglia in altre regioni mettendo a repentaglio la salute di altri, e così via.
Ma noi siamo anche esseri sociali, abbiamo imparato che, se assecondassimo solo il nostro lato “egoistico”, non potremmo vivere in società, la vita sarebbe un’eterna lotta di tutti contro tutti. Saremmo lupi fra i lupi. Allora, abbiamo sviluppato in noi anche il lato “altruistico”, la solidarietà e la carità verso i nostri simili. In certi momenti, quando ci sono circostanze in cui siamo chiamati ad aiutare gli altri, questa parte di noi prevale sull’altra fino al sacrificio della nostra stessa vita. È quello che capita nei momenti di guerra, nelle rivoluzioni, nei movimenti, nelle catastrofi naturali, nelle emergenze, dove la solidarietà si riattiva, dove ci si stringe uniti contro la natura avversa o contro il nemico, dove gli individui vivono una condizione definita da Alberoni “stato nascente”. Non diversamente da quanto accade nelle persone innamorate che improvvisamente e inaspettatamente, subiscono un cambiamento profondo, sono disposte a fondersi con l’amato o l’amata fino a sacrificarsi per lei o per lui.

È quello che sta capitando ora a quelle persone che sono chiamate a curare e ad assistere i malati o chi ha bisogno. Non solo i sanitari, ma tutti i lavoratori o i volontari che si prestano a tali compiti. Eppure, prima di questo momento speciale, almeno alcune di queste persone vivevano in una routine fatta anche di conflitti con i colleghi o con i superiori, di rivendicazioni personali o collettive, di lotte inascoltate contro strutture inadeguate o disorganizzate, di frustrazione per la precarietà o per altri problemi di lavoro o di mancanza di lavoro. Ora, questi elementi contingenti delle loro vite sono stati messi da parte di fronte a un compito collettivo più alto.

Ma sappiamo dalla storia che certe situazioni straordinarie come quella che molti oggi stanno vivendo, sono solo transitorie e non coinvolgono tutti. Anche nell’occasione straordinaria di solidarietà che ci ha fornito il Coronavirus, abbiamo visto che non si è spenta la nostra parte “egoistica”. Come possiamo allora pensare che dopo l’emergenza e una volta dimenticata, le cose non torneranno come prima? Soprattutto in un mondo che va così in fretta e dove la memoria non è mai stata tanto breve e la storia presto cancellata. Anzi, con la crisi economica, politica e sociale che ne seguirà, il disorientamento e l’istinto di sopravvivenza spingeranno le persone a pensare in primo luogo a soddisfare i bisogni primari – avere il cibo e una casa- e solo una volta soddisfatti, ci sarà spazio per tutti gli altri fra cui quello di socialità. Dovremo fare davvero un grande sforzo per riuscire a ridimensionare la nostra parte primordiale, per autoimporci di continuare a prestare attenzione all’altro e di mantenere uno sguardo al bene sociale anche a costo di sacrifici individuali. E proprio il fatto di essere consapevoli dei nostri limiti e della nostra duplicità può servire a ricordarci che una parte di noi è anche “sociale” e che è questa, secondo Durkheim, la parte più sacra dell’essere umano. Molti ci sono riusciti ad attivarla anche in situazioni critiche, speriamo di essere anche noi in grado di farlo.

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Rosantonietta Scramaglia

Rosantonietta Scramaglia

Laureata in Architettura e in Lingue e Letterature Straniere, ha conseguito il Dottorato in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Ha compiuto studi e svolto ricerche in Italia e in vari Paesi. Attualmente è Professore Associato in Sociologia presso l’Università IULM di Milano. È socia fondatrice di Istur – Istituto di Ricerche Francesco Alberoni. È autrice di oltre settanta pubblicazioni fra cui parecchie monografie.
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