Psicostoria: la speranza di Asimov

12 Febbraio 2019



Psicostoria: la speranza di Asimov
Psicostoria: la speranza di Asimov

C’è un capolavoro assoluto nella storia della sociologia che solo raramente è menzionato nei grandi testi scolastici. Forse perché è una saga narrativa di un genere ritenuto a torto minore. Forse perché è ambientata nel futuro.

Si tratta di un immenso impianto umano, un’architettura mentale dove interagiscono miliardi di persone, un enorme ed esaustivo libro di storia del futuro.  E’ il celebre Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov. Ritenuto il più grande ciclo fantascientifico mai scritto,  il suo valore varca i confini della narrativa. Di recente, dopo tanti anni – il primo romanzo risale al 1951 –  si torna a parlare delle visioni del grande Asimov, tanto che è in vista, dopo che Apple ha  vinto una clamorosa asta per aggiudicarsene i diritti, una trasposizione televisiva e cinematografica.

Ma perché solo ora se ne sente il bisogno? E perché prima non si è mai riusciti a farne diventare un film popolare come Dune o Blade Runner o la saga di Guerre Stellari e Star Trek?

Forse perché nel mondo di Asimov non ci sono alieni né mostri, né i cosiddetti “effetti speciali”. È tutto scientifico, tutto scritto da un profondo conoscitore dell’animo umano. Ed è un libro che da una situazione potenzialmente catastrofica e terminale dà una speranza. La speranza si chiama psicostoria ed è la vera protagonista della famosa saga.

Cos’è la psicostoria?

La psicostoria, in origine psicosociologia, è la scienza inventata dal personaggio chiave della saga, il matematico Hari Seldon,  per prevedere con elementi statistici e sociologici il comportamento  futuro di una massa di miliardi di persone. Viene elaborata in un periodo del futuro immaginario in cui nella massima espansione dell’umanita concretizzatasi nell’Impero Galattico, vengono avvertiti segnali di decadenza che secondo le previsioni del matematico potrebbero portare a trentamila anni di guerre e disastri vari, insomma a un lunghissimo Medioevo.

Come abbreviare il nostro medioevo? La risposta è antichissima: salvando il  sapere.

Asimov si ispira palesemente a Declino e caduta dell’Impero Romano di Gibbon, ma poi trova la speranza nell’esempio dei monaci benedettini, che copiando i testi basici della cultura Occidentale nelle biblioteche, hanno tenuto in piedi valori e cultura, mentre contemporaneamente si prendevano cura di madre terra nel loro “ora et labora”.

Nel ciclo delle Fondazioni Hari Seldon, nel piano per abbreviare il medioevo che incombe e ripristinare un ordine nuovo e pacifico, prevede due nuclei di “resistenti”, segreti al mondo. Uno su un pianeta ai confini della Galassia, non a caso chiamato Terminus, e l'altro sul mondo-capitale in declino, Trantor. Ognuno di essi si chiama Fondazione. Quella di Terminus è una comunità di enciclopedisti, incaricata di redigere una Enciclopedia Galattica. L'altra è formata da agricoltori portatori di antica saggezza, non a caso simbolicamente legati alla natura.

La speranza per Asimov è ricominciare dal sapere. D'altronde è questa la molla della civiltà: dalla scoperta del fuoco e della ruota è nato l'uomo moderno. Il sapere aumenta la democrazia, diminuisce la superstizione. C'è da chiedersi come mai gli attuali reggenti del mondo investano sempre meno non solo nella ricerca, ma anche nella storia. Le scuole italiane rinnegano il latino e il greco, ormai divenuto uno studio solo per iniziati, quasi fosse il Klingoniano o la lingua dei maghi di Harry Potter.  Gli abbandoni scolastici sono in aumento. I cosiddetti cervelli in fuga lasciano il nostro paese per scarsa motivazione, lasciano un paese che è sempre meno acculturato e forse destinato ad un inesorabile declino.

La frammentazione del sapere, inoltre,  allontana i singoli esperti da una conoscenza, anche di massima, onnicomprensiva, che permette lungimiranza ed empatia nei confronti della realtà e delle persone. La perdita delle tradizioni, inglobate nell'ottica del globalismo indifferenziato, ci fa sentire spaesati, malinconicamente sradicati.  C’è in gioco, in definitiva, la perdita,  della nostra identità.

Per questo non dimenticare chi siamo e da dove veniamo è così importante.

Perché una forma di medioevo non è poi così lontana. Una traccia si può già intravedere nel radicalismo di certi scontri religiosi: musulmani contro cristiani, cristiani intolleranti con i musulmani, in collisione con gli  ebrei. Un'altra traccia della decadenza è il peggiorare delle infrastrutture e dei trasporti pubblici, la trascuratezza nel costruire nuovi edifici, nella rinuncia alla bellezza nell'arte, nell'insoddisfazione dei lavoratori soprattutto nel settore pubblico, nella stagnazione economica, nei piccoli segnali per cui “si sa che tutto non potrà che peggiorare”.

Insomma, sapere significa provare a salvarsi. Non occorre ricorrere a scorciatoie, guerreggiare a vuoto, puntare su sterili propagande, ma puntare tutto sulla qualità più alta dell’uomo. Tenendo sempre presente la massima del più grande sindaco della Fondazione, Salvor Hardin:”La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”.

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Giusy Cafari Panico

Giusy Cafari Panico, caporedattrice (email), laureata in Scienze Politiche a indirizzo politico internazionale presso l’Università di Pavia, è studiosa di geopolitica e di cambiamenti nella società. Collabora come sceneggiatrice con una casa cinematografica di Roma, è regista di documentari e scrive testi per il teatro. Una sua pièce: “Amaldi l’Italiano” è stata rappresentata al Globe del CERN di Ginevra, con l’introduzione di Fabiola Gianotti. Scrittrice e poetessa, è direttrice di una collana editoriale di poesia e giurata di premi letterari internazionali. Il suo ultimo romanzo è “La fidanzata d’America” ( Castelvecchi, 2020).

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