Nella parte finale de “Il maestro e Margherita” Levi Matteo (sarebbe l’autore del vangelo, di uno dei quattro vangeli riconosciuti dalla chiesa) chiede a Satana di prendere con sé i due amanti e di compensarli con la pace. È un passaggio che riesce a fondere, con la leggerezza rara di cui è capace Bulgakov, ironia e intensità. Perché Voland-Satana, sorpreso dalla visita che gli arriva dal dipartimento opposto del cielo, dà a Matteo del “servo sciocco”, e quello gli risponde “Non voglio discutere con te, vecchio sofista”. Ma poi arriva la richiesta. E quando Satana gli domanda perché piuttosto non li prende con lui, nella luce, Matteo replica che i due non hanno meritato la luce, ma la pace.
Dunque lo scrittore russo coglie nell’amore (nell’amore erotico) una terzietà: non è di Dio, perché non è ossequio alle leggi, al contrario è trasgressione. Però non è nemmeno del diavolo, perché non è il male: e allora il suo posto, se ha un posto definitivo nell’universo, va pensato oltre i paradisi e gli inferni, o almeno oltre i paradisi e gli inferni che noi abbiamo costruito.
Il romanzo di Bulgakov offre davvero tante suggestioni: questa è una delle possibili chiavi di lettura, ma ve ne sono tante altre che stimolano riflessione e, come sempre accade con le opere autentiche, sono capaci di mandarci in crisi. Conosco persone, anche lettori appassionati, che non sono riuscite ad andare oltre le prime trenta pagine del libro, perché turbate da questo Satana che vi domina e squilibra ogni nostro appigliarci alle ordinarie sicurezze quotidiane. Ma nel diavolo bulgakoviano è da riconoscere più che altro il cambiamento: quel vento che terrorizza gli ignavi, coloro i quali si appigliano al formalismo delle leggi e dei regolamenti, i burocrati che uccidono libertà e creatività. E d’altra parte è il cambiamento l’essenza della speranza: potrebbe deluderci, potrebbe portarci problemi da affrontare e contrasti da soffrire, ma senza di esso saremmo condannati a una calma piatta, a un niente che, questo sì, ha il sapore della morte.