Difficile addio

19 Maggio 2018



Difficile addio
Difficile addio

Ho appeso la tua voce che reclamava nella cornetta del telefono: "hai voglia di vedermi?"
Ho appeso le mie calze alla bacchetta dello stendibiancheria pensando che si lasciavano penzolare sfinite, come sfiniti ha reso noi, il nostro amore.
Ho appeso il mio abito immacolato delle nozze nel vecchio armadio dei ricordi, senza più un ricordo che rotolasse fuori dalla lunga sottana preziosamente orlata.
E infine ho appeso il mio cuore al lampadario cinese di carta, sogno del nostro amore iniziale, quando l’arredamento romantico ci rammentava il nostro modo dolce di fare all’amore.
Ma poi erano giunte le violenze sottili, poi erano sopraggiunte le frasi di violenze immaginate.  Poi eravamo diventati noi stessi violenti, nel tentativo di dissotterrare l’emozione che si era fatta sdolcinata e vacua.
Ho appeso le chiavi al cruscotto dell’automobile sapendo che non mi avresti più portata a fare un giro per parlare.
E ho chiuso la porta: quella nostra porta che avevamo corazzato con una serratura di sicurezza per tenere i ladri lontani.
Quella grossa porta robusta a due battenti.
E mi guardavi senza chiedere nulla, con uno spasmo doloroso sui lineamenti contratti del volto e il tuo viso era la domanda più forte che un essere umano mi abbia mai rivolto.
Dicevi con occhi spenti: "ho bisogno di essere amato per vivere."  Eri contratto e assente. Svuotato di ogni desiderio che non fosse un abbraccio più caldo.
Nella camera ti abbandonavi sul letto accanto a me, e io pensavo che non ti amavo più. E sul tuo volto  sorpreso fuggevolmente fermo sul mio, ancora io mi ritraevo, piangevo e non ti amavo più.
Perchè piangevo se la crudele strega di quell’abbandono ero io?

Hai fatto la valigia il pomeriggio della befana; hai infilato le tue camicie e le calze colorate.
Hai riempito la borsa come se ti stessi svuotando tu stesso. Infilavi il tuo petto scuro e le tue gambe una a una, con difficoltà. Hai messo dentro la tua mano percorrendo lentamente i bordi della borsa e saggiandone le più piccole asperità interne.

E al momento di infilare anche il viso, il tuo viso stanco e trasparente, mi hai detto: "faccio fatica ad andare, ma se tu vuoi io vado. Faccio fatica e se vado è per non tornare."

Così sei entrato nella borsa e hai incominciato il tuo viaggio come un commesso viaggiatore. Da allora sei sospeso dentro a una borsa senza sapere nulla di dove andrai, senza vedere i luoghi in cui ti fermi. La tua borsa vecchia è divenuta per te una casa in cui ti fermi. Pronto ogni volta a ripartire attendi solamente un mio cenno.
Per fare l’amore, mi spoglio e mi calo nella borsa. Ti raggiungo anche con facilità, ma so che appena finito uscirò di nuovo dalla borsa e tu sai che non farai nulla per trattenermi. Così come non fai nulla perchè io entri.
Allora ricordo il nostro lampadario bianco di carta. E ricordo il tuo corpo al sole steso sulla sabbia e ricordo i mille ricordi che serbiamo dentro la borsa.

Quella borsa che è un caldo nascondiglio in cui mi tuffo ogni volta con tutto l’amore che posso. Sapendo ogni volta che uscirò e che serbadoti così sicuramente nel mio cuore, non penserò più per tutto il tempo a te.
Sapendo che fino a che resterai calato nella tua  borsa di pelle mobida io non temerò l’abbandono che io stessa ti ho portato.

Mi sembra di amarti allora e non so più chi sono.

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Cristina Cattaneo Beretta

Cristina Cattaneo Beretta (ha aggiunto il nome della mamma al suo) (email) Laureata in filosofia ed in psicologia a Pavia, psicoterapeuta, dottore di ricerca in filosofia delle scienze sociali e comunicazione simbolica, ha condotto studi sul linguaggio simbolico e il suo uso terapeutico (Cristina Cattaneo Il pozzo e la luna ed Aracne). Studia le esperienze di rinnovamento creativo e i processi amorosi, approfondendo in particolare il tema della dipendenza affettiva. Ha pubblicato con Francesco Alberoni: L’universo amoroso (Milano, 2017 ed. Jouvence), Amore mi come sei cambiato (2019 Milano, ed. Piemme Mondadori), L'amore e il tempo (Aracne 2020).

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