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Che cosa significa educare?

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Uno dei concetti principali in sociologia è quello di “socializzazione”, che non significa semplicemente “stabilire rapporti con gli altri” come si intende nell’accezione comune del termine. La socializzazione è un processo atto a integrare gli individui nelle società in cui vivono, a far sì che le tradizioni, le culture, le credenze si tramandino di generazione in generazione, e a creare cioè cittadini conformi alle aspettative sociali.

Se il processo di socializzazione non avviene correttamente e una generazione non è in grado di trasmettere i propri valori e i propri saperi a quella successiva, si hanno due ordini di conseguenze negative: per gli individui che non formano un tipo di personalità adeguato alle aspettative sociali, e che quindi non si integrano, diventando degli emarginati; e per le società destinate a morire, perché degli individui così non si fanno traghettatori del passato e quindi non permettono alle società di avere un futuro.

Il sistema educativo, l’istruzione, la scuola, sono fra i più importanti responsabili della trasmissione e della sopravvivenza dei valori sociali. Ogni società ne è più o meno consapevole e promuove dei sistemi educativi che ritiene più adatti a far conformare i bambini e i giovani alle proprie aspettative. La scuola, insomma, non ha mai avuto come scopo primario quello di impartire delle nozioni di grammatica, matematica, scienze o altro, ma quello di porsi come uno strumento di socializzazione e controllo politico.

La cultura alla portata di tutti che oggi noi diamo per scontata, per esempio, nel passato era tutt’altro che un ideale condiviso. Basti pensare all’Italia del XIX secolo quando si è passati dall’idea che un popolo ignorante sarebbe stato più facilmente controllabile a un nuovo tipo di controllo svolto attraverso un sistema scolastico ben organizzato.

Secondo la prima concezione che appare in un periodico dello Stato Pontificio, se fra il popolo si diffondesse una cultura pur minima, si rischierebbe di fargli perdere la sua ingenuità e semplicità primitiva, di allontanarlo dalle tradizioni, cosicché finirebbe per non amare più come prima la pressione dell’autorità. Si concludeva perciò che “l’insegnare a leggere e a scrivere al popolo è cosa di poca utilità, e che può portare funesti effetti…».

La seconda, al contrario, ricavata da una memoria diretta al Granduca di Toscana, promuove il controllo sociale attraverso l’istruzione perché, a suo avviso, dove vi è più Istruzione nella massa, il Popolo “è più costumato, e tranquillo”, rispetta i Magistrati, rispetta le Leggi, apprezzandone i vantaggi e riconoscendo la necessità del vincolo, che la società civile costituisce e conserva LINK. Questo secondo modello è prevalso dopo l’unificazione d’Italia perché ritenuto più utile al processo di secolarizzazione e all’auspicata integrazione dei dialetti e delle diverse tradizioni regionali in una nuova e unica cultura nazionale.

Per secoli, anche prima delle riflessioni sull’opportunità di cultura per tutti, il bambino era stato concepito come un vaso vuoto da riempire, non si poneva attenzione né alle diversità individuali, né alle differenti attitudini. L’educazione era impartita dall’alto, secondo uno schema rigido e non era negoziabile. Questa modalità educativa è stata esasperata dai sistemi totalitari di ieri e di oggi, che mirano soprattutto ad abituare i giovani all’obbedienza all’autorità, al rispetto della tradizione e al conformismo. Il metodo di apprendimento è quello mnemonico e i valori principali impartiti ai ragazzi sono la disciplina, l’ordine, la fedeltà. I sistemi totalitari aggressivi privilegiano poi l’attività fisica e l’addestramento duro.

Si è dovuto attendere l’intervento di Maria Montessori e di altri educatori del XIX secolo, spesso incompresi od ostacolati, perché si ribaltasse la prospettiva e si ponesse il bambino al centro del compito educativo, considerandolo già da piccolo, come un essere unico. Il ruolo dell’insegnante diventa allora quello di aiutarlo a sviluppare le sue potenzialità. Oggi, nei Paesi occidentali, l’educazione del bambino è atta soprattutto a metterlo di fronte ad attività pratiche e a stimolarlo verso un atteggiamento critico e creativo. In società dinamiche come la nostra, è utile avere dei futuri cittadini in grado di modificare la realtà o almeno di adattarsi al cambiamento. Nelle società statiche basate sulla tradizione, invece, gioco e creatività sono percepiti come pericolosi perché, attivando il senso critico delle persone e assecondando le differenze individuali, possono far crollare le basi su cui si regge la società, l’immobilismo.

Anche in passato però ci sono state delle idee sull’educazione, assolutamente innovative e controcorrente. Ci basti pensare a quelle espresse da Tommaso Campanella agli inizi del 1600, nella sua Città del Sole, un’utopia tardorinascimentale in cui l’autore immagina una città ideale dove gli abitanti potranno vivere nel migliore dei modi.

Lì, il filosofo applica la sua idea di educazione dei giovani e di cultura proponendo un’alternativa inusuale per quei tempi. Invece che racchiuso nelle biblioteche polverose, il sapere delle varie discipline verrà illustrato sui muri della città in modo comprensibile a tutti, adulti e bambini, perché ognuno possa accedervi ogni volta che vi passa davanti e apprendere in modo spontaneo, spinto dalla curiosità suscitata dalle immagini. Su alcuni muri, infatti, ci saranno carte geografiche con rappresentati gli usi, i costumi e gli alfabeti dei vari popoli conosciuti; su altri, i simboli matematici; in altri ancora, la mappa astronomica, i minerali, i vegetali, le specie animali; e così via.

Ma Campanella, l’attacco alla cultura tradizionale lo aveva già lanciato nelle sue Lettere dove troviamo il passo: “(…) ed io imparo più dall’anatomia di una formica o d’una erba (…) che non da tutti i libri che son scritti dal principio dei secoli (…)”.  Ora, nella Città del Sole, coerentemente con la sua idea di cultura pratica sperimentale piuttosto che appresa a memoria, si rivolge ai suoi contemporanei che pensano sia dotto chi sa più di grammatica e di logica di Aristotele o di altri autori; e osserva che per questo ci vuole solo “memoria servile” che rende l’uomo inerte, perché non contempla le cose, ma i libri, “e s’avvilisce l’anima in quelle cose morte; né sa come Dio regga le cose, e gli usi della natura e delle nazioni.” Quello che importa, insomma, è capire il meccanismo che muove tutto, il funzionamento dell’universo e delle società, non apprendere a memoria, in modo passivo, questo o quell’elemento isolato.

Oggi, che l’educazione resa accessibile a tutti, è in gran parte fatta di stimoli visivi come quelli dati dalla tv, dai pc o dai cellulari, e in modo interattivo come dettano i nuovi metodi pedagogici, l’idea di Campanella sembra davvero precorrere i tempi.

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Rosantonietta Scramaglia

Rosantonietta Scramaglia

Laureata in Architettura e in Lingue e Letterature Straniere, ha conseguito il Dottorato in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Ha compiuto studi e svolto ricerche in Italia e in vari Paesi. Attualmente è Professore Associato in Sociologia presso l’Università IULM di Milano. È socia fondatrice di Istur – Istituto di Ricerche Francesco Alberoni. È autrice di oltre settanta pubblicazioni fra cui parecchie monografie.
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