Che l’Italia sia una fucina di creatività non ci sono mai stati dubbi. È sufficiente guardare a tutto ciò che ha creato: arte, musica, invenzioni, imprenditoria.
Dante è tuttora studiato in tutto il mondo, fu la lungimiranza di Cristoforo Colombo a scoprire l’America, così come la nostra storia è stata scritta da geni del calibro di Macchiavelli, Pico della Mirandola, Leonardo, Raffaello, Michelangelo. Il Rinascimento partì principalmente da Firenze.
E poi Galileo, Marconi, Fermi, Zichichi, la Hack, le menti eccellenti del panorama scientifico. E ancora, Puccini, Verdi, ma anche Fellini, Mastroianni, De Sica, Benigni. Il computo delle eccellenze potrebbe continuare a lungo, fino a giungere ai grandi imprenditori dell’ultimo secolo, in tutti gli ambiti dell’imprenditoria. Dall’automobile alla moda al cibo, alla televisione. Ferrari, Agnelli, Ferrero, Armani, Berlusconi, Dolce & Gabbana…
Ma l’Italia non è fatta solo di questi rinomati geni creativi, ma anche da milioni di individui che ogni giorno si ingegnano per inventare e dare un senso alla propria vita. Tantissimi anonimi artigiani e piccoli imprenditori che popolano la nostra terra.
Poi c’è un’altra Italia.
Una parte consistente di italiani sembra essere una massa indisciplinata, alla quale serve che il governo emani ben 4 (al momento in cui scrivo) autocertificazioni per giustificare la ‘necessità’ di poter uscire di casa durante il Coronavirus. Perché non rispetta le regole, non ha un senso civico, si fa prendere dal panico o dall’egoismo. In tutte le altre nazioni è stato sufficiente emanare un solo decreto e non esiste neppure l’autocertificazione (mi risulta solo in Francia).
Perché?
A differenza degli italiani, i tedeschi, gli americani, gli inglesi, tutti i popoli nordici in generale (per restare in ambito democratico) rispettano la disciplina, hanno un concetto forte di stato, di nazione. Rispettano le leggi, hanno una forte morale, che si traduce in solidarietà sociale. Cioè, cooperano. Per volontà, per dovere, per altruismo.
Fu Auguste Comte, padre del positivismo e della sociologia, il primo che nel 1830 mutò i termini di ‘simpatia’ o ‘benevolenza’ in ‘altruismo’ per indicare quella propensione dell’individuo a trascendere se stesso per il bene ‘altrui’, una locuzione che entrò nel linguaggio comune senza mutare accezione e che ancora oggi utilizziamo. Secondo Comte, infatti, ciò che consente alla società di perpetuarsi è proprio il prevalere dell’altruismo sull’egoismo. Quindi se l’altruismo è il collante sociale, perché continuiamo ad assistere a situazioni in cui prevale l’istinto di sopravvivenza? L’egoismo individuale? Mors tua vita mea?
Il gene egoista
Nel 1976 Richard Dawkins scrisse un saggio scientifico – Il gene egoista – in cui spiegò in termini biologici come in natura vengono trasmessi solo quei geni le cui ‘conseguenze’ servono per i loro stessi interessi, ovvero per la loro ‘replicabilità’. La selezione parentale e l’eusocialità, prosegue Dawkins, prevedono situazioni in cui gli organismi agiscono contro il proprio interesse individuale per aiutare gli individui imparentati alla riproduzione, cioè aiutano le copie di se stessi a replicarsi in altri corpi. Semplificando il concetto, è il genitore pronto a sacrificare la propria vita per quella dei figli (interesse per la sopravvivenza della replicabilità), la stessa che a livello sociale Èmile Durkheim aveva individuato presso gli Inuit in cui, per la sopravvivenza del gruppo, in tempi di gelo e mancanza di cibo gli anziani abbandonavano il gruppo perché avesse maggiori risorse per i bambini e i giovani (suicidio altruistico).
Ora, noi siamo individui e non semplici geni biologici e non ci viene richiesto di dare la vita, non è questo il punto. Ma la presenza di questi geni egoisti permette di spiegare a livello biologico che anche l’egoismo del gene in realtà “si traduce in altruismo parentale tra gli organismi”. La collaborazione, quindi, è sempre la migliore strategia per la sopravvivenza.
Il gene indisciplinato
Tornando alla situazione attuale, verrebbe da pensare che in Italia il gene egoista sia mutato in (consentitemi la parodia) un gene indisciplinato, che non vuole sottomettersi a nessun imperativo categorico, a nessuna imposizione esterna, a nessuna legge né naturale né morale.
È la più potente dimostrazione di altruismo, ovvero di amore, verso se stessi, verso la propria società e verso la propria nazione anche se una buona fetta della popolazione italiana dimostra di non sentire (nel profondo) che disciplinare il proprio egoismo non è un sacrificio fine a se stesso.
Per fortuna, la parte ‘sacra’ (altruista) dell’homo duplex in molti è forte e presente e prevale su quella ‘profana’ (egoista). Lo vediamo quotidianamente, con dolore e sgomento, nelle immagini che ci giungono dagli ospedali, nello sforzo improbo di medici, infermieri, personale sanitario, volontari, forze dell’ordine. Di alpini, muratori e imbianchini delle valli bergamasche che cooperano a rischio della loro stessa vita per costruire un ospedale. Ma anche di quella parte della popolazione che ancora lavora e permette che nelle nostre case non manchino il cibo e i beni di prima necessità.
Siamo un popolo di geni indisciplinati MA creativi?
E allora, invece di obbligare il governo a emanare 4 moduli di autocertificazione, perché ‘fatta la legge trovato l’inganno’, dimostriamo la nostra creatività in modo costruttivo: come stanno facendo molte aziende – della moda, ma anche piccole e medie aziende artigiane e di altri settori – che hanno trasformato la loro produzione per fornire materiale sanitario (camici, mascherine, attrezzature per aiutare chi è in prima linea); o come quelle aziende che si ingegnano attraverso l’uso delle nuove tecnologie (es. stampa in 3d di tubi per respiratori).
E, se non ci riteniamo abbastanza creativi da poter contribuire fattivamente con il nostro ingegno, cerchiamo comunque di dare il nostro indispensabile contributo.
Perché, creativi, proattivi o meno, tutti noi siamo in grado di fare una cosa: disciplinare la nostra natura. Restiamo a casa.
Questo è l’appello non solo del governo, ma di tutti coloro che combattono in prima linea al fronte. Ed è un contributo che tutti noi possiamo dare.