Ci identifichiamo ancora con il nostro lavoro?

31 Marzo 2021



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Fino a non molto tempo fa, fra le caratteristiche anagrafiche più rilevanti, accanto al sesso, all’età e allo stato civile, c’era l’attività professionale. Oggi, è sempre più difficile ritenerla un elemento caratterizzante la persona. Nella vita, soprattutto nei giovani, si alternano sempre più momenti di lavoro con altri di inattività e spesso si sovrappongono lavori di tipo e in settori diversi per non parlare dei lavori occasionali e part time, svolti da chi è ancora ufficialmente studente oppure già pensionato.

Questa situazione, già critica prima della pandemia, oggi, con il grande scossone dato al mondo del lavoro, si è esasperata e, di conseguenza, non ci stupiscono le difficoltà incontrate nella distribuzione degli aiuti statali o locali a supporto delle categorie più danneggiate così come nell’individuazione dei lavoratori che possano ritenersi tali.

Del resto, si trascinano già da lungo tempo e non sono ancora risolte la polemica sulle casalinghe e la questione se il loro sia da considerare lavoro a tutti gli effetti. Infatti, se la definizione di lavoro è: “l’insieme di attività manuali e intellettuali compiute per produrre dei beni o dei servizi in cambio di un compenso”, il lavoro casalingo non è retribuito e quindi la mentalità comune non lo pone alla stregua di un qualsiasi altro lavoro svolto fuori casa. E questo anche fra le giovani coppie a quanto è risultato da una ricerca che avevo svolto qualche anno fa dove alla domanda: cosa fai durante il tuo tempo libero in casa, le donne rispondevano per lo più: “faccio la lavatrice” includendo nel tempo libero tutte le attività domestiche che non svolgevano durante le ore di lavoro fuori casa, l’unico ritenuto “lavoro”.

Questo equivoco si è aggravato con il COVID19 e i periodi di confinamento che ne sono seguiti, quando gli spazi e i tempi di “lavoro” e di mansioni casalinghe si sono sovrapposti soprattutto per chi ha svolto il telelavoro o homeworking creando non pochi problemi, mettendo in un unico contenitore “lavoro”, mansioni domestiche, relazioni famigliari e tempo libero.

Anche molti dei supporti utilizzati dalle famiglie per alleggerire i carichi di lavoro in casa, soprattutto delle donne e delle madri, come quelli forniti da baby sitter, colf e badanti, sono venuti a mancare per via, non solo dell’isolamento richiesto, ma anche perché molte di loro erano irregolari. Se pensiamo che nel 2018 circa 2 milioni, equivalenti a sei su dieci, erano irregolari e 311mila senza permesso di soggiorno, non ci sorprende che solo tra giugno e agosto 2020 siano state presentate 176.848 domande di sanatoria che, se accolte, aggiungerebbero un quinto di manodopera al totale già dichiarato, di lavoratori dei servizi alle persone e alle famiglie.

 

Ma la situazione è ancora più complessa e non riguarda solo le categorie sopracitate. Vediamo come siamo arrivati alla situazione di oggi anche per gli altri lavoratori.

A partire dalla rivoluzione industriale fino a pochi decenni fa, il quadro era molto preciso, in base al luogo di lavoro e alle mansioni specifiche, si creavano ruoli e gruppi: c’erano le classi lavoratrici con gli operai dalle tute blu e gli impiegati detti “colletti bianchi” entrambi salariati, anche se con due stili di vita e ambienti sociali diversi. Poi, c’erano i padroni, i capitalisti, i borghesi. Fra le due categorie, i sindacati, i movimenti dei lavoratori, le rivendicazioni di categoria, i contratti di settore, la difesa dei diritti di ciascuno con cortei, scioperi, e così via.

La cultura marxista che ha influenzato a lungo la realtà italiana aveva una visione dualistica della società (da un lato i capitalisti e dall’altro i salariati) il modello di riferimento era quello dell’industria o della pubblica amministrazione, trascurando agricoltori, commercianti, artigiani, lavoratori dello spettacolo, solo per citarne alcuni.

 

Negli ultimi anni, invece, si sono andati insinuando dei cambiamenti graduali circa le tipologie e i le modalità di lavoro, i lavoratori e i luoghi di lavoro.

Riguardo alle modalità di lavoro, c’è stata la rivoluzione creata dalle varie applicazioni del digitale: in primis i cellulari che permettono contatti di lavoro continui e da ogni luogo, la robotizzazione delle catene di montaggio, l’informatizzazione delle procedure d’ufficio, l’uso di androidi che fanno funzioni di receptionist degli hotel o di supporto negli ospedali. Le vendite on line che riducono negozi, commercianti e commessi: casse con self checkout dei supermercati, auto o treni con pilota automatico, l’informazione e l’editoria on line che danno il colpo di grazia a tipografie e alla carta stampata, e così via... Queste trasformazioni che sono solo agli inizi hanno avuto e avranno grandi ripercussioni sull’occupazione e sulle mansioni dei lavoratori.

Riguardo ai lavoratori, infatti, si sono inseriti in modo sempre più diffuso i lavori dei giovani a tempo determinato, si è frantumato il sogno del “posto fisso” tanto agognato dal personaggio interpretato da Checco Zalone nel film “Quo vado”. Si sono sperimentate varie soluzioni individuali di sopravvivenza – dai rider ai call center-, o fornite dalle start up dove ognuno diventa imprenditore di se stesso. In sintesi, nel 2019 il tasso di occupazione dei giovani italiani dai 25 ai 29 anni era del 56,3%, il più basso dei 27 Paesi europei la cui media è di 74,6%.

Anche per i lavoratori anziani, il posto non appare più tanto fisso come quando vi avevano avuto accesso. La digitalizzazione delle procedure ha significato formazione continua e adattamento a nuove mansioni quando non è consistita nell’espulsione dalla attività lavorativa. Rilevante è stato l’accesso al mondo del lavoro da parte di immigrati, oltre 2 milioni e mezzo nel 2019, di cui molti impiegati nei settori meno ambiti dagli italiani, ma in numero sempre crescente titolari di imprese (circa 600mila, pari a un decimo del totale). Questo ha portato a confrontarsi con altri modi di lavorare, con altre culture, con altre esigenze e talvolta con problemi di concorrenza. Poi, ci sono i lavoratori stagionali, di cui si parlava poco, ma che in alcuni settori, peraltro finora sottostimati, come l’agricoltura e il turismo, costituiscono una parte importante della nostra economia. Infine, i lavoratori irregolari o “in nero”, che fanno parte del sommerso tradizionale e che, prima del COVID, erano stimati a circa 3,3 milioni ma che si prevede saliranno con la crisi economica in atto.

Riguardo ai luoghi di lavoro, infine, se prima della pandemia l’Italia occupava il penultimo posto in Europa nel numero di lavoratori che svolgevano spesso o sempre il lavoro da casa e nel 2019 erano poco più di mezzo milione, nel marzo 2020 superavano i 6 milioni e mezzo di unità passando da circa il 9% a oltre il 40% e salendo al nono posto nella classifica europea. Nonostante il peso numerico assunto, però, non c’è ancora una definizione univoca di questa forma di lavoro noto come homeworking, lavoro da remoto, lavoro a distanza, telelavoro, lavoro da casa, smartworking o lavoro agile (anche se di solito quest’ultimo termine è usato impropriamente perché nella maggior parte dei casi non vi sono autonomia e flessibilità di orari).

Già prima della pandemia c’erano lavori svolti in parte a casa e in parte in aziende che comportavano una rotazione degli uffici e delle scrivanie e a una riduzione degli spazi per uffici all’interno degli edifici e delle città. Inoltre, molte attività soprattutto innovative avevano luogo in spazi condivisi di coworking. Non c’è più, insomma, “il posto fisso” inteso come stabilità nel tempo, ma anche come stabilità nello spazio.

Poiché anche terminata l’emergenza non potremo tornare al passato cancellando le tendenze che erano già in atto e che hanno subito solo un’accelerata, occorrerà ripensare al nostro ruolo nel mondo al di là dell’attività lavorativa, sempre meno determinante nel definirci, e lo stesso dovranno fare i decisori politici se vogliono parlare e raggiungere tutti i cittadini in modo equo. Il futuro è ancora tutto da scrivere.

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Rosantonietta Scramaglia

Laureata in Architettura e in Lingue e Letterature Straniere, ha conseguito il Dottorato in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Ha compiuto studi e svolto ricerche in Italia e in vari Paesi. Attualmente è Professore Associato in Sociologia presso l’Università IULM di Milano. È socia fondatrice di Istur – Istituto di Ricerche Francesco Alberoni. È autrice di oltre settanta pubblicazioni fra cui parecchie monografie.

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