Un capitano d’industria del Novecento. Giovanni Rossi

16 Dicembre 2020



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C'erano una volta i grandi capitani d'industria italiani.

Erano uomini capaci di creare aristocrazie borghesi dinastiche, che stabilivano spesso un rapporto simbiotico con la loro azienda e i loro lavoratori. Le grandi famiglie dei capitani di industria in genere tramandavano il ricordo degli inizi mitologici del fondatore, il suo culto. Un po' come i Romani che avevano il culto dei Lari, le ceneri degli avi custoditi nelle urne.

L'elenco dei più celebri sarebbe lunghissimo, qualche nome per tutti: i Bassetti, i Barilla, i Marzotto. Ogni città, in genere, aveva una figura eminente: fattasi da sé, aveva prodotto un circolo virtuoso tra produzione, forza lavoro, società creando la spina dorsale economica del Paese. Le figure dei fondatori hanno spesso travalicato la narrazione imprenditoriale per spostarsi su diversi aspetti di benessere sociale.

Un esempio poco conosciuto è quello di Giovanni Rossi, piacentino, grande protagonista del Novecento.

Figlio di un capomastro, capomastro egli stesso, trasformò Ponte dell'Olio (PC) in una cittadella industriale moderna, attorno alla quale gravitavano tutti gli abitanti. Allo scoccare del Novecento, ad appena diciotto anni, Rossi era già responsabile dell'azienda. Nei primi anni Venti era riuscito a realizzare una fabbrica di calce a ben cinque fusti, simile più a un enorme castello medioevale che a uno stabilimento, con tanto di camminamenti lignei che sembravano passerelle tra torri militari.

Attorno al "castello", che funzionava notte e giorno, aveva fatto costruire la sua villa padronale e il suo parco. Si diceva che la sua dedizione al lavoro fosse tale che vigilava per accertarsi che la fiamma ardesse sempre, persino di notte. Andava nella non vicina Cremona, dove c'era un fiorente mercato legato all'edilizia, anche due volte al giorno in bicicletta per incrementare gli affari.  E nel giro di pochi decenni acquisì la grande cementeria di Piacenza e altre a Borgo Val di Taro, Pederobba nel vicentino, facendo diventare la sua azienda leader nazionale nel settore del cemento.

Ma al di là delle sue capacità industriali, la figura di Giovanni Rossi colpisce per la sua gestione umana, familiare e affettiva, della forza lavoro.

A distanza di quasi un secolo, percorrendo le strade di Ponte dell'Olio, si respira ancora un'atmosfera di autentica venerazione per quest'uomo, attraverso i ricordi tramandati dalle varie generazioni di lavoratori.

Fin dagli inizi aveva destinato uno dei forni ai suoi operai, sottraendolo quindi alla produzione.

Tutti gli abitanti del paese potevano cuocere le proprie pagnotte e marchiarle con un loro sigillo per distinguerle le une dalle altre, e anche altri alimenti come le patate, e talvolta la carne. Nel parco di famiglia tutti potevano attingere a una fontana per l'approvvigionamento dell'acqua. Tutti i bambini potevano giocare assieme a prescindere dalla posizione occupata all'interno dell'azienda dai genitori.

Inoltre all'interno della fabbrica, a scadenze fisse, tutti i lavoratori venivano visitati da medici e tecnici provenienti dall'ospedale della città per accertarsi della presenza di malattie dovute all'attività lavorativa.

Rossi dotò il paese di un asilo nido per i figli dei dipendenti, di un teatro, di una sede per la Società del Mutuo Soccorso.

Fece costruire un quartiere di case operaie ad affitti agevolati che poi potevano essere riscattate dai dipendenti; sostenne le vedove dei caduti sul lavoro e ne assunse i figli. Si inventò le gite aziendali ante litteram. Portava i suoi dipendenti in gita dapprima nei dintorni montani di Piacenza, poi sul Lago Maggiore quando furono introdotti i pullman. Formò molti figli dei suoi dipendenti in una scuola di disegno presieduta da uno dei più celebri pittori piacentini, Ottorino Romagnosi.

Durante le due guerre si premurò di assumere anche lavoratori non indispensabili pur di salvarli dal reclutamento forzato e da campagne militari drammatiche. Come quella di Russia negli anni Quaranta. Quando, negli anni Cinquanta, la fabbrica per la produzione dei laterizi comincio a essere in perdita decise di non chiuderla per non licenziare nessuno.

Durante il periodo fascista fu costretto a fuggire a Torino e a Milano.

Per quasi cinque anni lasciò le chiavi della sua azienda a un altro grande imprenditore: Aride Breviglieri, futuro fondatore della RDB, altro colosso dell'edilizia:  al suo ritorno l'altro imprenditore gliela riconsegnò intatta e in attivo, non pretendendo nessun compenso aggiuntivo per la sua attività.

Dopo i bombardamenti che distrussero la Cementeria di Piacenza, nel maggio del quarantacinque partecipò alla ricostruzione  a tempo di record del tratto di ferrovia Milano-Ancona.  Negli anni Cinquanta, prima di morire, inaugurò il primo forno a metano d'Europa, grazie alla collaborazione di un altro grande personaggio italiano, Enrico Mattei.

Queste figure di capitani d'industria, sicuramente mitizzate dalla lontananza nel tempo e dalla nostalgia, riverberano tuttavia intatta  la loro luminosità, ancora oggi. Anche perché vanno estinguendosi, In Italia gli  imprenditori italiani più famosi hanno tutti più di settant'anni. Oggi la produzione è prevalentemente in mano a  multinazionali, multiproprietà a cui è difficile dare un volto. Troppe, poi, sono le grandi aziende italiane finite in mani straniere.

I grandi capitani d'industria, proprio come i grandi ammiragli, sembrano veramente figure del passato remoto.

Soprattutto per il loro afflato sociale e filantropico. È difficile, oggi, che attorno alle fabbriche si sviluppino così tanti servizi per i lavoratori, che ci sia una rete di protezione a misura di dipendente fornita dalla proprietà.

C'è da osservare, tuttavia, che per tanto tempo in Italia non c'è stato un vero e proprio welfare statale.

Era l'imprenditore illuminato del passato a sopperire a questa mancanza strutturale creandone una ad hoc per i propri dipendenti.

Qualcuno, a posteriori, ha criticato questa gestione paternalistica delle aziende, individuando negli imprenditori come Giovanni Rossi dei "padri padroni", interessati alla salute e al benessere dei loro dipendenti  solo pro domo sua, per tenerli legati a loro  grazie a un'elargizione "dall'alto" di benefici. Questa visione - prevalentemente marxista - è tuttavia da ritenersi perlomeno affiancata ad un sincero legame affettivo che si sviluppava tra persone che condividevano fianco a fianco la giornata e le sue fatiche, in un ambiente dove ci si conosceva tutti e in cui una malattia o un incidente diventava un lutto per tutta la comunità. Il rapporto umano, il faccia a faccia, il non anonimato del lavoro, rendeva queste cittadine un'oasi rispetto ad altre comunità lavorative dell'epoca.

Il fattore umano ha sempre fatto la differenza.

Certo, oggi è lo stato che si è fatto carico del welfare, delle pensioni, dell'istruzione e i datori di lavoro hanno con i dipendenti un rapporto più "amministrativo", mediato quasi sempre dai sindacati.

Restano come spunto di riflessione sulla società del passato queste cittadelle del lavoro che spesso sono sopravvissute fisicamente, anche se dismesse, come  Ponte dell'Olio o Crespi d'Adda, patrimonio dell'Unesco dal 1995.

Siti di archeologia industriale che ci ricordano una società meno tecnologica, molto meno garantita dalle leggi, ma per altri versi meno alienante e più umana.

 

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Giusy Cafari Panico

Giusy Cafari Panico, caporedattrice (email), laureata in Scienze Politiche a indirizzo politico internazionale presso l’Università di Pavia, è studiosa di geopolitica e di cambiamenti nella società. Collabora come sceneggiatrice con una casa cinematografica di Roma, è regista di documentari e scrive testi per il teatro. Una sua pièce: “Amaldi l’Italiano” è stata rappresentata al Globe del CERN di Ginevra, con l’introduzione di Fabiola Gianotti. Scrittrice e poetessa, è direttrice di una collana editoriale di poesia e giurata di premi letterari internazionali. Il suo ultimo romanzo è “La fidanzata d’America” ( Castelvecchi, 2020).

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