La natura offre molti spunti di riflessione sulla nostra condizione umana: le mele di ghiaccio, ad esempio.
Nel febbraio dello scorso anno, su una zona del West Michigan si è abbattuta un’eccezionale ondata di freddo. Le basse temperature hanno colpito, in particolar modo un terreno, della contea di Kent, coltivato a meli, dando origine al fenomeno delle mele di ghiaccio.
Proprio mentre le mele crescevano sui rami, il freddo ha interrotto bruscamente il loro processo di maturazione.
Nel giro di poco, le mele furono avvolte da uno strato di ghiaccio, che persistette a lungo.
All’interno del guscio di ghiaccio il frutto si indebolì irrimediabilmente, e la buccia, la polpa, il cuore, perfino il picciolo si spappolarono.
Le ghost apples, così le chiamarono, sembravano rilucenti di inusitata bellezza, come romantici e bellissimi addobbi di cristallo, ma in realtà non erano altro che frutti persi, mele marcite ridotte in poltiglia. Non erano altro che un vezzo della memoria, un ricordo di quello che erano state e per davvero ormai perso.
La loro bellezza era del tutto sfiorita, scomparsa per sempre; ne restava solo un’apparenza.
Non ci sono forse delle situazioni che ci rendono freddi e fragili come le mele di ghiaccio?
Non ci sono forse situazioni che ci consumano al punto di svuotarci?
Le mele di ghiaccio, nel mio personale sentire, evocano chi ha subìto un evento traumatico ed è stato debilitato da un lungo periodo di sofferenza, o chi è stato colpito da una malattia alienante ma, nel contempo, ha saputo conservare apparenza o dignità.
La mela di ghiaccio è, ad esempio, una donna bella, affascinante apparentemente felice ma con una profonda sofferenza, un dolore taciuto, un trauma irrisolto. Avviluppata in quel bozzolo di ghiaccio, la metamorfosi è in direzione opposta alla vita, ed è genesi di disgregazione.
La mela di ghiaccio è un padre che non può più parlare coi suoi figli perché (in una fase dolorosa della vita) la moglie glieli ha messi contro.
La mela di ghiaccio è chi ha subito un tradimento, la fine di un amore, o un lutto ma ha avuto la forza di resistere e non si è annullato al confronto con gli altri.
È un figlio che, dopo la morte dell’amato padre, ha tenuto dentro di sé la morte per quel distacco, per quella perdita, non ha cercato un primato nel dolore (perché era un dolore di tutta la sua famiglia) ma ha cercato di portare con la sua vita, nella sua vita, nuova gioia, nuova allegria, e leggerezza da offrire agli altri, e tutto questo, gli altri, lo hanno confuso nella banalità della forma.
Lentamente muore anche chi non viene capito.
La mela di ghiaccio è l’anziano visto da lontano nella sua solitudine, nella sua fragilità.
Nessuno si interroga sui suoi bisogni troppo impegnativi da gestire. La sua pelle è ormai trasparente. Gli occhi liquidi di delusione sono fissi nel tempo lontano della memoria. Resta aggrappato alla vita, perché crede ancora di poter insegnare l’amore.
La mela di ghiaccio è chi resta solo ma deve, nel dolore, conservare una facciata, più prossima alla dignità che non all'ipocrisia.
Quando quello che i poeti chiamano “polpa immateriale”, “nucleo cortese” o “fulcro squisito” (che è dell’anima) inizia a indebolirsi per la troppa sofferenza, quando la pura consistenza dell’essere si neutralizza, agghiacciata dagli eventi, noi diventiamo come le mele di ghiaccio.
Tornerà però un giorno il sole e scioglierà anche l’ultima corazza del tempo. Ogni mela di ghiaccio, goccia a goccia, colerà sulla terra, la nutrirà e la purificherà come in un rito battesimale.
Perché anche il dolore sa partorirci di “nuovo”.
Tutto questo ci ricorda che bisogna osservare gli altri con meno giudizio e più sensibilità, e che bisogna accettare le situazioni, le sconfitte, le perdita, il lutto o un addio, perché la vita è un ciclo naturale di rinascite.