Non distruggiamo i marchi del made in Italy

1 Luglio 2020



'}}
'}}

Il Made in Italy non è il prodotto di grandi aziende internazionali, ma di un’interrelazione particolare , una vera opera di collaborazione e competizione secolare tra tanti piccoli artigiani e produttori che in Italia hanno portato a vocazioni territoriali di altissimo livello. Nel campo dei prodotti alimentari, in Emilia il Parmigiano Reggiano, a Cremona i violini e il torrone. In Romagna le fisarmoniche, ad Arezzo l’oro, a Sassuolo le piastrelle, a Como la seta, a Biella la lana, a Capodimonte le ceramiche famosissime in tutto il mondo. Poi gli stupendi vetri di Murano, il salame di Varzi, le Ferrari di Maranello...

Nella crisi ci accorgiamo che le grandi aziende non danno più la sicurezza che ci avevano assicurato coloro che ripetevano sempre  che il problema dell'Italia sono le piccole aziende. Ma se queste restano perché sono radicate, tipicamente italiane, da un giorno all’altro la multinazionale decide di spostare la produzione dove costa meno e non ci puoi fare nulla. Di conseguenza  la sicurezza della grande azienda è in questo momento molto aleatoria.

La standardizzazione ha diffuso alcune pessime abitudini, come quella di comprare al supermercato prodotti che non hanno  più un marchio, e talvolta il prodotto  è di buona qualità, ma  vi sono buone ragioni per dubitare che, nella maggioranza dei casi, il prodotto sia del livello assicurato dai grandi marchi.  Ma questa scelta è sbagliata per la nostra immagine nel mondo:  la  modalità di marcare i prodotti con il nome della catena che li rivende, se invece di essere un'offerta in più diventa l'unica proposta al cliente, nuoce alla nostra libertà di acquirenti, ma soprattutto nuoce moltissimo al made in Italy la cui anima agli occhi del mondo è proprio il nome del marchio.   E'  il marchio che garantisce la qualità del prodotto e non dovremmo abbandonare  con tale facilità i nostri marchi , frutto del lavoro di generazioni di imprenditori attenti a non cedere mai sulla qualità.  All’estero non puoi esportare la pasta della catena commerciale che magari non è neppure italiana, ma quella garantita da un marchio italiano. In una giungla di contraffazioni di prodotti italiani nel mondo, solo il nome della grande azienda ti salva oppure quello di una grande azienda che unisce sotto di sé le eccellenze.

Ma chi può aiutare i marchi? Solo i consumatori attenti che smettono di comprare prodotti di infima qualità dei quali si sa poco o nulla.

Tornare al made in Italy, è tornare alla catena del valore. Una scelta che non è di necessario impoverimento, semmai il contrario.  Ciò che ha valore è fragile e va difeso, ma non impoverisce mai, anzi, se difeso genera qualità aggiunta.

Una delle spinte ideologiche   verso la globalizzazione è stata la promessa che ci saremmo arricchiti e avremmo lavorato meno. ma doveva essere regolata. Per questo nella realtà dei fatti è avvenuto il contrario: la globalizzazione senza regole ci ha impoveriti, ha reso il nostro lavoro sempre più standardizzato, abbiamo importato oggetti di scarsissimo valore che durano poco e poi sono da smaltire. Diventiamo la discarica di prodotti fabbricati dall'altra parte del mondo. Chi li introduce nei nostri confini  mette sulle nostra spalle  in anticipo lo smaltimento. Spesso sono prodotti  programmati per funzionare per poco tempo, pochi anni e quindi fatti per la discarica,   spinti sul mercato dalle grandi multinazionali che continuano a introdurre minime modifiche per rendere gli oggetti rapidamente obsoleti.

Nel cercare la via di uscita dalla crisi una delle leve possibili, una leva promettente, è quella di scegliere la via del radicamento al territorio e alle sue più elevate vocazioni. Questo non significa non avere più relazioni o non viaggiare più, non essere più cittadini del mondo, ma riconnetterci ad esso forti di un’identità ritrovata.

La direzione della rivalutazione delle nostre zone con le loro vocazioni, unita a un’amministrazione della cosa pubblica più vicina al territorio, potrebbe ridarci una scossa vitale, esuberanza, coraggio. Quella che Gianfelice Rocca chiama l’energia sociale che porta a ritrovare le catene del valore.

 

Condividi questo articolo

'}}

Cristina Cattaneo Beretta

Cristina Cattaneo Beretta (ha aggiunto il nome della mamma al suo) (email) Laureata in filosofia ed in psicologia a Pavia, psicoterapeuta, dottore di ricerca in filosofia delle scienze sociali e comunicazione simbolica, ha condotto studi sul linguaggio simbolico e il suo uso terapeutico (Cristina Cattaneo Il pozzo e la luna ed Aracne). Studia le esperienze di rinnovamento creativo e i processi amorosi, approfondendo in particolare il tema della dipendenza affettiva. Ha pubblicato con Francesco Alberoni: L’universo amoroso (Milano, 2017 ed. Jouvence), Amore mi come sei cambiato (2019 Milano, ed. Piemme Mondadori), L'amore e il tempo (la nave di Teseo 2020), 1989-2019 Il rinnovamento del mondo (La nave di teseo, 2021)

ARTICOLO PRECEDENTEPROSSIMO ARTICOLO
Back to Top
×