Il vaccino dovrebbero trovarlo contro la tristezza.
L’impatto della pandemia sui nostri comportamenti e quindi sulle nostre relazioni è stato, ed è, feroce come una frusta di vento sulla pelle escoriata.
Il neologismo del 2020, (così lo cataloga la Treccani) “distanziamento sociale” è deleterio e da abolire.
Perché si è forzato sull’aggettivo “sociale” e non più correttamente su “sanitario” o “precauzionale”?
Di fatto, non sarebbe cambiato nulla, sempre distanti dobbiamo stare, ma l’uso di un aggettivo diverso avrebbe reso, e ancora oggi renderebbe, il nostro atteggiamento più orientato alla protezione e alla prevenzione collettiva. Alla cura dell’altro, anziché alla più estrema chiusura personale.
L’uomo è “sociale” per definizione, e vive in branco.
Ha una vita sociale.
Come si può convincerlo ad astrarsi dalla sua stessa natura e a rinnegare la sua stessa natura?
Inculcare nelle nostre teste il concetto di “distanziamento sociale” è stato come prendere un mitra e spararci addosso una raffica di paura.
La paura è una percezione o una proiezione individuale: riguarda qualcosa che potrebbe accadere ma non è detto che accada.
Ci hanno resi incapaci di reagire. Se avessimo, da subito, parlato di distanziamento "precauzionale" o "sanitario", probabilmente ci saremmo impegnati a trovare soluzioni pratiche e intelligenti per non isolarci in una bolla asfittica.
Forse saremmo arrivati prima, ad esempio, ad attivare le camere degli abbracci, nelle strutture di cura e di ricovero per anziani.
Le camere degli abbracci sono strutture gonfiabili, realizzate in materiale plastico: elastico sottile robusto, che consentono il contatto con le persone accolte al loro interno. Sono postazioni sterili, dotate di vere e proprie maniche di plastica, in cui infilare le braccia per congiungere le mani, accarezzarle, stringersi in un abbraccio,
E non è mica un gesto da poco abbracciare un proprio affetto. L’abbraccio è un istinto primordiale.
L’abbraccio riporta in quei luoghi-non luoghi della memoria, riporta a un’essenza di “casa”, a un nucleo primario, annulla il tempo dello sconforto, ancor più della distanza, restituisce il profumo di un’esperienza di tregua, di quiete, di stabilità. Fa stare bene fisicamente[1].
Le parole sono potenti e l’effetto del loro risuonare può essere un’eco distruggente. L’aver calcato la mano sul “distanziamento sociale” ha favorito un processo di indebolimento dei rapporti sociali. Ha fatto leva su un meccanismo morboso e autoimmune che ci ha reso fragili, in direzione dell’abbandono, dell’esclusione, e in generale si è alimentata la diffidenza, non più solo verso gli estranei, ma verso anche la nostra rete di contatti, e una tale mestizia si è annidata negli sguardi spenti.
Gli occhi che sanno comunicare, che sanno parlare, che sanno ridere, che sanno piangere!
Dalle mascherine fanno capolino occhi impauriti e sguardi persi. Siamo volti inespressivi, senza né più nasi, né più bocche. Non abbiamo più il coraggio di guardarci negli occhi perché non sopportiamo di riconoscerci in questa dominante tristezza.
Hanno fatto di una questione sanitaria un tarlo collettivo.
A partire proprio dall’uso capzioso delle parole.
Un distanziamento sanitario precauzionale, per l’amore e il rispetto di tutti, è diventato diffidenza, e peggio ancora sfiducia.
Frutto amaro di una comunicazione distorta. Anche le nostri voci sono distorte.
Ci aggiriamo per le strade delle nostre città mortificate, tra palazzi di nebbia e illusioni sbiadite. Sembriamo umanoidi col becco e, per davvero, la sagoma umana dell’urlo di Munch.
Abbiamo occhi rivolti a terra, smarriti nell’indefinitezza dell’oggi.
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