Progettare in grande, grandi grattacieli e spazi che suddividono chiaramente ogni funzione umana o progettare in modo che gli spazi siano uniti in una rete interconnessa di relazioni umane, che tiene insieme gli affetti amorosi, familiari la vita sociale, il lavoro?
Sono due modelli opposti di vita che oggi si fronteggiano in modo nuovo ora che le tecnologie ci possono permettere di scegliere.
Lo spazio di vita interconnessa è quello che abbiamo ereditato dall’età comunale. Nel comune tutto era articolato su piccole distanze, la vita avveniva dentro le mura della città. E i mercanti ti portavano il mondo vicino a casa, come lo zingaro Melchiades in Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez faceva conoscere agli abitanti di Macondo una nuova invenzione.
Lo sviluppo globale ha modificato radicalmente la nostra comunità, ha assottigliato le sue reti, le ha rese evanescenti.
Lo sviluppo globalizzato ha separato i luoghi: concentrazione di uffici nei grattacieli, interi paesi, rioni di città dormitorio, con rari negozi al dettaglio e strade di nessuno. Ma, lontano da ogni insediamento, grandi centri commerciali dove concentrare tutti gli acquisti. Persino una lampadina. Per questo la consegna a domicilio è stata un enorme successo. Era qualcosa cui tutti si era avvezzi sino a due generazioni fa.
Ma la consegna a domicilio arriva da lontano e non fa riprendere la partecipazione nei confronti della comunità. Non ti occupi di quello che fa il tuo comune e non conosci più da vicino i suoi amministratori. È un nuovo modo di vivere disperso asettico, non comunitario, forse anche più tollerante ma in modo astratto. Difendi sulla carta dei diritti di chiunque, sino a quando non ti senti minacciato in prima persona. Il tuo orizzonte non è più radicato in un luogo, ma disperso in molti: alcuni luoghi ben collegati dalle reti di trasporto sono diventati vicini, anche se sulla mappa si trovano a grandi distanze. È chiaro che San Pietroburgo è molto più lontana da Milano di una città come Tolentino o Spoleto, ma ci arrivi prima.
Oltre che sull'abitare, anche sul versante della produzione abbiamo lasciato che prevalessero modelli venuti da lontano. Primo tra tutti il modello asiatico: vediamo i loro immensi mercati (bazar?) dove sono partiti i focolai di Covid-19, una produzione altamente standardizzata in grandissime quantità.
Ma questo modello non è adeguato a un paese come l’Italia e neppure per i Paesi europei caratterizzati storicamente da una produzione limitata ma rivolta al bello, manufatti che una volta prodotti aumentavano di valore. Erano infatti il prodotto di un’ecosistema di artigiani, di imprenditori, di piccole aziende che lavorando a stretto contratto, generazione dopo generazione, riuscivano a dare un risultato superiore a quello che ciascuno di loro , preso isolatamente e senza confronto, avrebbe potuto realizzare. I prodotti standardizzati invece perdono immediatamente valore solo per il fatto di acquistarli e divengono un costo da smaltire. La produzione di alta qualità in campo agroalimentare, della moda, dell’arredamento, dell’oreficeria, del vetro e potremmo continuare a lungo, richiede un coacervo di competenze che si alimentano reciprocamente.
Non si deve confondere la nostra distinzione con quella di Èmile Durkheim. Egli sosteneva che le società antiche erano meccaniche perché classi sociali, ceti, professioni erano ben distinti. Quelle moderne erano organiche perché ciascuno dipendeva dall’attività dell’altro. Oggi si dovrebbe dire il il contrario. Con la globalizzazione e la standardizzazione si sono imposte le produzioni asiatiche standardizzate e tutto è diventato più meccanico, uniforme, rigido. Oggi possiamo riscoprire la potenza creativa generata dalle nostre città italiane ed europee in cui crescevano e competevano imprese diverse. u'economia non della povertà come gli intellettuali della decrescita avevano ipotizzato come ideologicamente buona, ma di una economia di benessere, che riduce gli scarti, l'inquinamento, che si circonda di opere di pregio, che vengono trasmesse di generazione in generazione.