L’eterna fanciulla

2 Marzo 2020



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Nel 1956 Marilyn Monroe, ‘il corpo più bello d’America’, sposò Arthur Miller, ‘la mente più brillante d’America’: un’unione tra gli opposti. La donna più desiderata del mondo si univa con un uomo dalla mente geniale. Marilyn era stufa dei ruoli da bambola esplosiva, voleva fare un salto nella qualità delle sue performance come attrice e quel suo terzo intelligente e adorante marito poteva essere la sua ancora di salvezza.

Non fu così. Almeno, non per la donna Marilyn che, dopo soli cinque anni si trovò alle prese con un nuovo divorzio, sempre più depressa e dipendente dalle pillole, di nuovo alla ricerca della sua identità e del suo posto nel mondo.

Poco tempo dopo la morte dell'indimenticabile attrice, Arthur Miller fu accusato di aver scritto un'opera teatrale in cui aveva ricalcato i meccanismi perversi del matrimonio e della vita con Marilyn.

Dopo la caduta

Nel dramma Maggie attrae Quentin per la sua innocenza, la sua ingenuità, la sua apertura sessuale e per l’ammirazione smisurata che nutre verso di lui. Quentin ne è adulato e al tempo stesso Maggie diviene presto sempre più dipendente dal valore che lui le attribuisce per dare valore a se stessa. Quando si sposano, Quentin trova irresistibile il potere che Maggie gli ha conferito, ma presto inizia a intuirne il rovescio della medaglia, in particolare a sentirne la responsabilità sempre più opprimente.

Maggie, infatti, ha sempre più bisogno di sentirsi adorata da Quentin per darsi valore, per definire la propria identità. Ben presto inizia a divenire gelosa di tutto ciò che distrae Quentin dall’adorazione della sua persona e ogni volta che la devozione di Quentin si allenta o lei sospetta che diminuisca, lei cade in depressione e si rifugia nell’alcol. A questo punto l’innocenza dell’inizio si trasforma in cinismo e aggressività. Minaccia il suicidio, si identifica nella parte della vittima e delega in toto al marito il potere di salvarla. Perché non riesce a riconoscere in se stessa le due parti della sua identità, quella di vittima e quella di carnefice, che la rendono dipendente e cieca di fronte alla sua incapacità di prendersi la responsabilità della propria vita. A quel punto Quentin la lascia e Maggie si toglie la vita.

 

Casa di bambola

Anche Nora, la protagonista del dramma di Ibsen (1879) appare come la classica donna senza personalità, frivola, passiva. Adorata prima dal padre e poi dal marito, lascia che la sua vita sia sempre guidata da un maschile forte. Ma, alla fine, messa di fronte alla decisione se continuare a dipendere da un marito che la tiene ingabbiata in un matrimonio convenzionale o prendersi la responsabilità della propria vita, Nora decide di lasciare marito e figli e di cercare se stessa. Il monologo finale è stato spesso preso come baluardo di un femminismo ancora agli albori, la scelta di Nora fece inorridire la società benpensante e molte celebri attrici del tempo si rifiutarono di interpretarne il ruolo per non essere identificate con un personaggio che rappresentava valori opposti alla morale, al matrimonio e alla maternità.

 

Che cosa accomuna Maggie e Nora?

Entrambe dipendono dal giudizio esterno del marito per determinare il loro valore. Ciò che le differenzia è la scelta finale che attuano. Maggie è troppo fragile per prendersi la responsabilità della sua vita, e decide di togliersi la vita. Nora, al contrario, capisce che l’unica via per trovare se stessa è ‘abbandonare’ il marito e prendersi la responsabilità della propria vita. Un abbandono in questo caso fisico, ma che sottende la capacità di prendere simbolicamente le distanze da un maschile soverchiante.

La finzione letteraria non è la realtà, ma ci mostra chiaramente come gli archetipi sottostanti alle relazioni possano assumere sembianze diverse nei rapporti reali. Ancora oggi troviamo donne troppo dipendenti dai loro partner che delegano loro il potere delle loro scelte e della loro felicità. Sono donne fragili e vulnerabili in apparenza, ma passivo-aggressive nella relazione. Sono donne che fanno spesso leva sul sesso o sui sensi di colpa per tenersi stretto il loro uomo. Perché ne sono, appunto, dipendenti. E, a differenza di Nora di Ibsen, non sanno metaforicamente abbandonare ‘marito e figli’ per ritrovare se stesse.

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Federica Fortunato

Sociologa e professional coach. Collabora dal 2000 con l’università IULM, ha tenuto corsi presso l’Università Statale degli Studi negli insegnamenti ad indirizzo sociologico e ha collaborato con il Politecnico di Milano. Nel corso degli anni ha partecipato a numerose ricerche universitarie, con l’ISTUR presso committenti privati e istituzionali, con il Centro Sperimentale di Cinematografia e presso realtà aziendali italiane nel settore del lusso.

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