Avere vent’anni a Tehran

17 Febbraio 2021



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Mohammed ha 24 anni, figlio di un noto imprenditore iraniano, è laureato in ingegneria civile, sogna di poter dotare di scale mobili grandi centri commerciali in Italia ed in Europa, così come il papà ha fatto a Tehran. Io ed il mio collega Giorgio, siamo qui per lui e per tanti altri clienti che incontreremo il giorno seguente dopo un incontro con l’autorità diplomatica italiana in cui discuteremo della legittimità dei dinieghi all’ingresso loro rivolti.

Siamo qui per tutelare la corretta considerazione da parte della nostra pubblica amministrazione del loro interesse legittimo a migrare nel nostro Paese.  Un interesse legittimo, in diritto, si distingue e talvolta degrada rispetto ai diritti soggettivi, vere e proprie pretese cui corrispondono obblighi di fare o non fare. Questo interesse, non è ancora un diritto per Mohammed, non ha la stessa forza, ma rappresenta una posizione di vantaggio nella possibilità di ottenerlo. Include, infatti, una valutazione discrezionale delle autorità pubbliche italiane nella sua realizzazione.

Spesso gli equilibri internazionali e le nostre maggioranze instabili, portatrici di mutevoli politiche di apertura o chiusura ai flussi migratori, intervengono in questa valutazione portando ad un eccesso di potere in decisioni pretestuose di chiusura, ad esempio in ossequio ad indirizzi internazionali in cui oggi l’America prende il sopravvento e l’Europa risulta frammentata.

L’interesse legittimo a chiedere un titolo che permetta di vivere e lavorare in Italia è, per un ragazzo appena laureato a Tehran, un’opportunità di riconoscimento dei propri sogni e della propria libertà. Perché qui in Iran, è del tutto normale pensare che l’autorità pubblica possa sindacare anche nell’intimo e nella legittimità delle proprie aspirazioni. La mamma e la sorella di Mohammed, da brave donne di casa, hanno dedicato la giornata alla cucina tipica in nostro onore, mangeremo stufato di pollo con melagrana e noci.

Appena entrati nel salone, notiamo quadri di tappeto persiano raffiguranti scene di guerra, adornati da spesse cornici barocche, un biliardo ed un tavolo enorme con poltrone dorate. Al centro del tavolo, narghilè e vari distillati, dalla vodka al rum, per preparare l’aperitivo. Mohammed, vuole subito presentarci i suoi amici, anche loro contano sul nostro sostegno per realizzare il loro sogno “occidentale”. Uno in particolare, Majid, ha già scelto di emigrare in Canada, lì la politica immigratoria è più aperta all’Iran, avrà probabilmente la possibilità di trasferirsi in breve tempo e finalmente, lavorare al suo progetto di fotografia dedicato allo studio dei corpi femminili. Tutti loro vogliono immortalare su Instagram questo momento, cantando insieme “In the end” dei Blink 182, una band statunitense simbolo della loro ribellione al regime. Una ribellione vissuta in privato, che non solleverà rivolte ma li spingerà a partire.

Questi ragazzi vogliono mostrarci di essere come noi, si compiacciono di essere nostri complici in una sera di divertimento offrendoci svaghi appartenenti alle nostre abitudini, talvolta esasperandoli. Vogliono renderci evidente la loro vicinanza nella ricerca di uno stile di vita trasgressivo. Dopo cena, iniziamo una partita a squadre ad otto nero passandoci la shisha, mentre parliamo del loro futuro trasferimento in Italia.

Chiediamo poi a Mohammed di accompagnarci in albergo, abbiamo bisogno di riposare. Poco dopo ci ritroveremo sull'Andarzgoo, in una delle aree residenziali più ricche a nord della città. Qui scambiarsi bigliettini e numeri di telefono da un'auto all'altra, nel rigore della separazione tra ragazzi e ragazze nelle rispettive vetture, è un'abitudine diffusa come in altre strade della capitale, percorse più volte a tale scopo fino al mattino.

Ci spiega che i ragazzi cercano un contatto veloce per potersi dare appuntamento in privato, a causa della presenza ai lati del traffico delle guardie più temute, le 'Gasht-e-Ershad'. Esse vigilano sul rispetto delle norme di comportamento islamico. Il loro compito è quello di guidare verso l’osservanza delle leggi morali del corano, inibendo dunque da qualsiasi comportamento che possa preludere ad incontri di coppia, dall’utilizzo dei social al conoscersi accostando le proprie auto nel traffico secondo la consuetudine del “Dor-Dor”.

In poco tempo dal nostro arrivo, capiamo che a Tehran i giovani della classe medio-borghese non sono figli della rivoluzione teocratica del 79’, bensì della precedente occidentalizzazione promossa e diplomaticamente coltivata dall’ultimo Scià di Persia, Mohamed Reza Pahlavi.

 

Per capire la portata del cambiamento, basti pensare a quanto contrariamente accadeva nei primi anni di dittatura, che vedevano la partecipazione civile di giovani collettivi a sostegno dell’estradizione dello Scià rifugiatosi in America e successivamente, schiere di volontari per la guerra di conquista territoriale contro l’Iraq. I giovani ventenni Iraniani degli anni 80, padri della medesima generazione odierna, si univano a sostegno e difesa dell’unità politica e culturale islamica, appoggiando la teocrazia. Erano tempi in cui la libertà individuale ed il dissenso nei confronti della dittatura rivoluzionaria, si sopivano e degradavano in virtù di uno scopo collettivo superiore.

Questa dimensione collettiva di appoggio al nuovo regime risultava anche trasversale nei ceti della società iraniana, raccoglieva il consenso della fascia indigente e benestante, donne e giovani studenti. Tutti cercavano nella rivoluzione il rovesciamento della monarchia assoluta dello Scià, in cui non si riconoscevano poiché portatrice di una modernizzazione di stampo occidentale forzata. Allora, la rigidità dei dettami islamici non distanziava, bensì univa.

Al contrario oggi, il giovane Mohammed, non si riconosce in una fede istituzionalizzata, ne percepisce l’istanza di divisione e controllo, desidera raggiungere status appartenenti alla nostra modernità ed al contempo, si riallaccia orgogliosamente al mito millenario persiano. Inizio così a riflettere su cosa voglia dire avere vent’anni a Tehran.

 

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Maria Teresa Vanacore

Maria Teresa Vanacore, è avvocato specializzata in diritto dell’immigrazione e mobilità internazionale, cantante ed appassionata di musica funky & soul. Nell’arco della sua attività si occupa di promuovere integrazione e parità di trattamento nei confronti di stranieri migranti economici provenienti da realtà geopoliticamente esposte e soggetti per questo a discriminazione. Ha pubblicato su Il Sole 24 Ore sezione diritto articoli dedicati a proposte di miglioramento della politica migratoria europea. Come cantante, si dedica a progetti di cover con diversi musicisti, e si esibisce come voce del gruppo Everfunk nel contesto live milanese.

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