Ogni anno, nei mesi estivi, io e la mia famiglia ci trasferivamo dalla città alla campagna.
Bastavano poche ore di viaggio per passare dal frastuono assordante del traffico, al silenzio delle vallate e dei boschi. Erano quelli i luoghi della mia infanzia.
Di notte, non era facile addormentarsi da quanto intenso e assordante era il silenzio: per noi così urbanizzati, così assuefatti al rumore.
Ma a tutto ci si abitua, anche al cantilenante e ripetitivo bubolare della civetta.
Alla sveglia mattutina provvedeva il gallo con il suo canto garrulo.
Il rumore delle macchine agricole, impegnate nel tenace lavoro dei campi, si udiva in sottofondo come un’eco. Le auto che transitavano giornalmente nella strada sterrata in fondo al nostro accesso si contavano sulle dita di una mano.
L’uscio di giorno restava aperto. Chiunque fosse capitato era ben accetto. Poteva salire la rampa di scale all’ingresso, bussare e farci una sorpresa.
Mia nonna sentiva l’esigenza che non vi fossero porte chiuse.
Aveva la dote dell'accoglienza. Sia la famiglia che viveva di fronte (per un saluto o un’urgenza) che qualsivoglia altro passante erano i benvenuti.
Persisteva vibrante il piacere della buona compagnia, del piacere della conversazione.
Lasciare il portone chiuso sarebbe stato scortese, un inequivocabile segnale di chiusura. Contro ogni “principio di buon vicinato” o “regola di ospitalità”.
Usanze di una volta, di un tempo in cui le relazioni, forse agevolate da un contesto numericamente ristretto e selezionato, erano caratterizzate da uno spiccato senso di appartenenza alla comunità e da una fiduciosa attitudine all’accoglienza: gli incontri nelle piazze, la trebbiatura di agosto, le feste di paese, le visite ai malati. Si faceva sirossu di sera tra vicini in un sereno ciarlare, seduti su panche di legno.
Ogni tanto ci torno nei luoghi della mia infanzia. La mia campagna giace ora abbandonata, come pure la nostra casa.
L’uscio è chiuso e impolverato.
Fino a che è vissuta, mia nonna fungeva da centro per l’intera famiglia, che ora è frammentata e dispersa tra le mille preoccupazioni cittadine.
Immagino di rivedere l’aia polverosa e i granai protetti dai teli.
Sento il crepitio delle braci nella stufa. In cielo rivedo le nuvole basse che rendevano quella casa senza tempo.
Respiro ancora l’odore dell’erba dopo la pioggia, le lucciole nei prati sono piccole luminose stelle a portata di mano.
L’unica casa abitata resta quella di fronte, quella del contadino, col suo piccolo campanaccio e le inferriate rugginose del piano terra. Passo a trovarlo. Suono. Apre senza troppa circospezione, non sposta nemmeno la tenda per vedere chi é. Mi riconosce e mi accoglie festoso, gli occhi sempre ridenti.
Nelle sue mani ruvide, tagliate dal tempo e dall’antico lavoro, ritrovo ancora oggi la sua forza morale.
Ettore era uno tenace, io lo seguivo nei campi: ho imparato da lui la ricompensa del lavoro della terra, i frutti raccolti, le regole dei venti, la sapienza dell’attesa.