L’ultimo appuntamento?
Dite "No!" non andateci! Potrebbe essere una situazione ad alto rischio.
Dunque, dite "No!", all’ultimo appuntamento!
Di questo e altro abbiamo parlato, in Redazione, con la Dottoressa Clara Ajmone Psicologa e Psicoterapeuta, che è stata per anni responsabile del servizio di Consultazione Psicologica e Psicoterapia dell’Ospedale di Niguarda.
Ci sono dei segnali che possano allertarci sulla pericolosità di un rapporto?
Purtroppo, no! Non ci sono sempre degli indicatori del livello di pericolosità di una relazione (in sofferenza) ed è difficile stabilire quando il comportamento di un partner “potrebbe” essere rischioso per la nostra incolumità.
È difficile prevedere la pericolosità in un rapporto che si rompe?
Molto. Non tutte le persone che metteranno in atto comportamenti distruttivi si rivolgono a un esperto per avere un aiuto. Possono essere molto seduttive e avere un approccio “normale”. Una volta irretita la vittima, esce la parte aggressiva e sadica del soggetto. Molte persone apparentemente normali e ben inserite celano tratti patologici, quindi in certi casi possono diventare pericolose.
Qual è l’elemento scatenante di questo cambiamento?
Succede che (a loro avviso) si trovino nella condizione di sentirsi “abbandonati”, o “presi in giro” (per come dicono loro) dalla partner e si scatena così una cieca aggressività. Il loro ragionamento in modo molto schematico è questo:
- Quando ti ho incontrata, per me è stato come rivivere.
- Tu mi hai dato la vita, adesso me la togli
- Allora te la tolgo anche io.
Tanto per semplificare al massimo.
Quindi la vittima è collusiva?
La vittima molto spesso non è in grado di fare un esame corretto della realtà.
Di questi episodi ce ne sono tanti, nelle relazioni così tumultuose, che si trascinano tra alti e bassi, ma mai al punto di favorire una separazione. La vittima (alcune volte costretta dalle amiche, dai genitori, a denunciare) tende a tollerare la situazione, perdonare il partner e ad accettare un ultimo appuntamento, che poi è quello fatale. La vittima ha sempre una propensione a voler trovare del buono o a voler dare una spiegazione che la sollevi dai sensi di colpa. È anche questo che la spinge a non denunciare.
È possibile che la vittima abbia un brutto presentimento, ma vada ugualmente?
A volte sì, le vittime hanno questo presentimento. Ricordo il caso di una donna che prima di presentarsi al fatidico “ultimo appuntamento” lasciò una lettera con le sue volontà.
Aveva avuto quel presentimento ma è andata lo stesso. Io penso che ci sia sempre la speranza, la fiducia, in fondo, che l’altro cambi.
Non è una sopravvalutazione?
Sì, lo è: è una sopravvalutazione dell’altro e di sé. La vittima si ritiene in grado di gestire la situazione e anzi di poter far, addirittura, cambiare idea all’altro che non ci pensa nemmeno a cambiare idea o il film che si è fatto. In genere c’è molta determinazione.
Quindi non si può parlare di raptus?
No! Io non credo ai “raptus”, credo che gli atti di violenza siano molto più premeditati di quanto si creda, c’è a monte una preparazione molto profonda. C’è un fattore scatenante, del momento, che corto circuita una problematica passata, non risolta, non affrontata ecc.
Ho avuto una paziente che era diventata una stalker. Perseguitava il partner perché si era fatta un suo film sul suo presunto tradimento. Il luogo del tradimento era una casa di cui lei era proprietaria (un elemento determinante per far scattare in lei una serie di pensieri ossessivi).
Si sentiva doppiamente tradita?
Sì, la paziente si era fatta anche il film su come avrebbe risolto la situazione. L’avrebbe ammazzato! Con un'accetta. Pensò anche al luogo in cui agire, a come occultare il cadavere ecc.
Non fece nulla perché nel suo caso la terapia fu molto efficace. Era già un po’ disturbata e sofferente per il suo passato e il presunto tradimento le aveva scatenato un concatenamento di pensieri ossessivi.
La donna in pratica si era fatta un film che continuava ossessivamente a rivedere?
Quel suo film era un pensiero ossessivo che si replicava senza sosta nella parte scissa della sua mente. La donna, per tutto il resto era normale. Aveva un buon lavoro, era stimata, aveva amici. Dopo un lungo lavoro di terapia, un giorno venne da me con una borsa: l’aprì ed estrasse l’accetta con cui aveva immaginato di ammazzare il suo partner. Me la consegnò. Poi lasciò l’Italia , si trasferì all’estero, per lavoro. Questo nuovo impegno lavorativo la tenne lontana dall’Italia e dalla sua ossessione. Lei si trovò un nuovo compagno e la sua ossessione si consumò nel nulla.
Nel tempo, si era resa conto che le sue fantasie erano state eccessive e che se le avesse ascoltate, avrebbe fatto qualcosa di rovinoso per lei e per la sua vittima. La potenziale vittima non seppe mai nulla del rischio che aveva corso.
Che consiglio si sente di dare ai nostri lettori?
La motivazione, a indagare su noi stessi, deve partire da noi. Quando in situazioni di sofferenza, ci rendiamo conto di iniziare ad avere pensieri strani, di stare male all’interno di una relazione, è bene parlarne con qualcuno, è bene riflettere. Molto spesso questo non avviene.
L’appuntamento con sé stessi è sempre quello più importante, è difficile ma ci sono momenti in cui bisogna affrontarsi. C’è sempre una certa reticenza, o timidezza a parlare dei propri disagi, molto spesso perché non si ha l’interlocutore giusto con cui confrontarsi. E ci si avvita, da soli, in una spirale devastante: un vortice in divenire, una vertigine della mente.
E intanto, precipitiamo.