Che le droghe svolgano, da che mondo è mondo, la funzione di attenuare la fatica e il dolore intrinsecamente connessi alla umana esistenza emerge chiaramente anche dal mito della creazione della tradizione incaica dove il re mitico Manco Chapac riceve dal cielo la foglia di coca sotto forma di cometa accompagnata da una voce che la definisce “rimedio alle sofferenze dei mortali”.
Ma non serve andare così lontani: anche nella tradizione greca, Dioniso condensa nella sua figura poliedrica i temi della tragicità della condizione umana, della inesausta ricerca del piacere e della condivisione come della consolazione dalle afflizioni cui la vita inevitabilmente ci condanna. Come ci ricorda il coro delle Baccanti di Euripide (vv. 282-4):
"Il figlio di Semele che insegnò il succo tratto dall’uva, la bevanda che agli esseri infelici che sono gli uomini, e muoiono, acquieta ogni dolore, quando dentro il frutto della vite li inonda, e dà il sonno, e col sonno l’oblio di tutti i mali della giornata; non v’è medicina altra che questa per chi soffre e pena".
Seppure in forme diverse appare evidente come il ricorso alle droghe si collega intimamente sia a momenti celebrativi di gioia (specie in ricorrenze di condivisione. Valga fra tutti il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino fatta da Gesù a Canaan) che di compensazione per il dolore- fatica collegati alla esistenza umana ed in particolare elle fati connotate da lutto e separazione.
Quella di “bere il calice sino alle feccia” fu l’espressione di Cristo nell’orto del Getzemani in vista del sacrificio ultimo. Polarità – piacere/dolore – che si ritrova nello stesso rito eucaristico dove la celebrazione simpodiale si unisce a quel “bevete il mio sangue” rappresentato da quel “succo della vite” di cui già i riti dionisiaci furono anticipazione stando alla geniale ricostruzione di Macchioro (1929) nel suo “Studi intorno all’orfismo”.
Interessante, al proposito, l’accostamento con un altro passaggio di Euripide, sempre da “Le baccanti”:
“Due sono, mio caro giovane, le cose essenziali al mondo: Demetra, ossia la terra (chiamala così se vuoi): è lei a nutrire con i cereali, con il cibo asciutto. Poi è venuto il figlio di Semele e ha trovato un corrispettivo, l’umido succo della vite, e lo ha introdotto tra i mortali. Il vino spegne i dolori delle persone che soffrono”.
Droghe e regressione primaria
Il tema del ricorso alle droghe come ritorno alla simbiosi primaria appare a più riprese anche nella letteratura psicoanalitica.
Già Clark (1919) vede nell'abuso di alcool una forma di regressione ad una “identificazione primaria” con la madre (Bergeret 1983).
Per Kielholtz (in Rado, 1957) la melanconia alcolica è legata ad una intollerabile discrepanza fra Io e Ideale dell'Io, con conseguente attivazione di fantasie auto-distruttive alternate a fasi maniacali in cui il conflitto viene aggressivamente agito sul mondo esterno.
E ancora, la funzione compensatoria fornita dalla droga, sostenuta da S. Rado (1957), nel sostenere la negazione maniacale della perdita dello “oggetto ideale”.
La depressione viene in taluni casi ricondotta alla identificazione-introiezione di un oggetto malato o morto.
"La droga è in questi casi rappresentativa di tale oggetto e l'assunzione di droga comporta l'incorporazione molto completa di questo oggetto" (Rosenfeld, 1965). Si evidenzia in detta prospettiva un mancato superamento della simbiosi originaria madre- bambino sottolineata da M. Mahler e coll. (1978).
Per Romolo Rossi (da Zerbetto, 2003) "si tratta della tendenza all'isolamento in diadi, in rapporti simbiotici duali, in ottuse relazioni nutritizie di succhiamento, in cui una delle condizioni di base è l'esclusione di ogni terza persona, la rabbiosa negazione del rapporto edipico... tutto rimane immobile nel bilancio tra desideri, ambizioni, tensioni verso gli oggetti da un lato, e dall'altro possibilità immobile di ripetere sempre uguale il loro esaudimento, tramite una facile magia ripetitiva, ed un oggetto facile ad ottenersi, e quasi prelogicamente, magicamente, ricreabile sempre uguale, come la droga.
L'angoscia di perdere impedisce di utilizzare modalità di rapporto oggettuali nuove, che non siano ripetitive ed immobili, e con un oggetto che, nella sua chimica freddezza, non tradisce”.
“Ucciderai tuo padre e ti unirai a tua madre”
Nel tremendo pronunciamento oracolare riportato dall’Edipo tiranno di Sofocle, si riassume notoriamente la concezione freudiana che vede nel complesso di Edipo il fulcro della nevrosi: la riunificazione regressiva con la Madre si accompagna inevitabilmente ad una eliminazione fantasticata (ed in certi casi ... non solo) del Padre. In questo squilibrio tra le funzioni genitoriali si evidenzia un disperato ritorno ad un piacere “orale” e regressivo accompagnato da un rifiuto del “principio di realtà” notoriamente associato alla figura paterna.
La distruzione del padre, unita alle fantasie di riunificazione eternizzata con la madre, viene introdotta da Weijl (1958), che identifica nell'operazione tossicomanica l'aspetto triadico della “colpa primaria”. All'ebbrezza del pasto totemico sarebbe collegato l'aspetto maniacale del comportamento drogastico, inevitabilmente seguito dall'esasperazione dei sensi di colpa e della depressione.
Una “operazione” rilevabile a livello individuale, ma che comporta spesso una dimensione di partecipazione orgiastica e collettiva (vedi i rave parties etc.): Per citare Eric Fromm (1955): «L'alcoolismo e la tossicomania sono le forme alle quali l'individuo ricorre in una civiltà non orgiastica. Contrariamente ai riti proposti da un'intera comunità, quelli individuali sono caratterizzati da un senso di colpa e rimorso. L'uomo tenta di fuggire all'isolamento rifugiandosi nell'alcool e nelle droghe, ma si sente ancora più solo quando è finito lo stato di ebbrezza, e di conseguenza è spinto a ricorrervi con sempre maggior frequenza e intensità». Questa forma di difesa sarebbe meno frequente nelle società primitive dove l'obiettivo della totemizzazione del padre e il dissolvimento dell'identità del singolo nel gruppo viene perseguito attraverso le forme di stati orgiastici.
Incorporare l’oggetto di desiderio
L’ansia di separazione, cui siamo condannati in quanto individui, fa emergere, come abbiamo accennato, istanze regressive di incorporazione totalizzante. Appare evidente, in tal senso, l’emergere potente di un fantasma unitivo che rimanda alla simbiosi primaria e che può ripresentarci come strutturazione del “carattere orale”.
Lo stesso, per la presenza di rilevanti caratteristiche proprie della fase orale, portò Abraham (1975) a introdurre tale definizione di personalità come contraddistinta da una spiccata rilevanza di tematiche di invidia, pessimismo, attitudine dipendente, querulomania, ostilità, atteggiamenti rivendicativi, scarsa tolleranza alle frustrazioni e tendenza ad eccedere nell'alimentarsi e in altri comportamenti assuntivi. L'onnipotenza e l'ambivalenza nelle relazioni oggettuali vengono ancora identificate da Glover (1932) come caratteristiche peculiari del «carattere orale», la cui genesi viene ricondotta ai modelli di relazione madre-bambino e non limitatamente al persistere di elementi della fase erotico-orale come tali. La fragile struttura egoica spiegherebbe in questi soggetti la bassa tolleranza alla frustrazione, la labilità emotiva, il carente senso di realtà, l'intolleranza per le norme e le incongruenze condottuali.
Il carattere orale è stato anche di un rilevante contributo da parte di Lowen (1978) sulla scorta della caratteroanalisi introdotta da W. Reich e che rimanda caratteristiche di questi pazienti orientate a “sentimenti, radicati in profondità, di solitudine, di delusione e d'impotenza; dall'altra c'è il narcisismo, l'evidente bisogno di attenzione e di approvazione (la ricerca di soddisfazioni narcisistiche) e il desiderio di essere nutrito: Il mondo mi deve il necessario sostentamento (..). I rapporti amorosi del carattere orale presentano gli stessi disturbi che troviamo nella sua funzione lavorativa. Il suo interesse è narcisistico, grandi sono le sue esigenze e limitata la sua reazione.
Si aspetta comprensione, simpatia e amore ed è oltremodo sensibile alla freddezza del partner o dell'ambiente. Poiché nel rapporto con l'altro non è in grado di soddisfare queste esigenze narcisistiche il carattere orale sviluppa sentimenti di rifiuto, risentimento ed ostilità. Dato che anche il partner ha esigenze proprie che il carattere orale non può facilmente soddisfare, la situazione è di quasi costante conflitto. La dipendenza è grande, ma è spesso mascherata dall'ostilità. La paura del rifiuto che, nel caso del carattere orale, è la paura di perdere l'oggetto d'amore, rimane latente nell'inconscio come grande pericolo e grave minaccia”.
Il carving tra psiche e soma
Al di là dell’attenzione riservato a questo aspetto clinico in collegamento alla disassuefazione da farmaci dipendentogeni e accompagnati quindi a fattori biologici, appare indubbia la componente psicogena all’origine degli stati di carving e che rischia, in tempi recenti, di non avere l’attenzione che merita.
Ricordo, in un mio viaggio di studio negli Stati Uniti negli anni ’70, di aver visitato un centro di ricerca (di cui ho perso purtroppo le indicazioni) dove si sperimentavano gli effetti in doppio cieco collegati alla somministrazione di placebo o naloxone in soggetti narcotico dipendenti. Come è facile aspettarsi, la sindrome astinenziale compariva puntualmente nel narcotico dipendente anche dopo somministrazione di acqua distillata fatta passare per naloxone.
Una conferma, in tale direzione, viene anche dalle osservazioni sul craving nei casi di dipendenza da gioco d’azzardo patologico nella quale la componente psicogena è ovviamente determinante su quella fisiogena. Tema vasto e sul quale non vorrei addentrarmi (vedi anche Croce e Zerbetto, 2001) se non per riportare la constatazione, su un numero di 120 casi osservati in un triennio in occasione del programma sperimentale di psicoterapia intensiva in ambito residenziale “Orthos” da me coordinato (Zerbetto e coll., 2010) nel quale una sindrome astinenziale da gioco non si è mai verificata nonostante la gravità media deli utenti trattati (con valutazioni media del SOGS a oltre 14). Questo a riprova del fatto che la componente psicogena, pur presente in alta percentuale di casi nella patologia in oggetto, può di fatto scomparire in presenza di condizioni ambientali e di supporto psicologico che ne favoriscono una sostanziale diminuzione.
Conclusioni?
Non direi! Mi accontenterei di aver apportato un modesto contributo sui seguenti aspetti collegati al fenomeno del craving:
- - Tale patologia non va ristretta ad un ambito puramente clinico ad orientamento biologico. La sindrome carenziale fa parte della natura umana sin dai suoi esordi e si ripresenta puntualmente nel corso dell’esistenza in collegamento a fasi di separazione da fondi di nutrimento e rassicurazione che riguardano essenzialmente le relazioni significative
- - L’ansia di separazione comporta quindi un elemento di pathos che inevitabilmente si collega ad eros come componente ineludibile delle relazioni a forte tonalità passionale che, in quanto tale, non va connotata per default come pato-logia
- - Una singolare intensità di tale fenomeno, riscontrabile in alcune persone, evidenzia tratti di personalità riconducibili a particolari “vicissitudini della libido” (per Freud), recentemente riconducibili a forme di attachment problematico che meritano una particolare attenzione sotto il profilo clinico e dell’intervento terapeutico
- - Tali forme di disregolazione affettiva, si esprimono non raramente in forme di dipendenza da sostanze o altri comportamenti compulsivi di cui la clinica si è ampiamente occupata negli ultimi decenni, ma di cui non va trascurata la matrice psicogena come elemento
causale o concausale di primaria importanza e la cui sottovalutazione rischia di far adottare interventi unicamente fondati su strumenti farmacologici che, paradossalmente, tendono a consolidare anziché far superare forme originariamente connotate da abuso di sostanze
- In tale prospettiva non va trascurato l’allargamento del panorama di riferimento concettuale a discipline di derivazione antropologica, filosofica, psicologica e letteraria e non strettamente medico-biologica che rischierebbero di restringere le possibilità di comprensione di tale problematica entro un orizzonte riduttivo e pertanto inadeguato alla complessità e ricchezza del tema in oggetto.
Postscriptum: e se la carenza affettiva fosse l’essenza della nostra vita?
In occasione di una visita all’isola di Samotracia, dove si celebravano antichi riti isterici, ebbi l’occasione di approfondire la ricostruzione sui contenuti che la tradizione ci ha consegnato a riguardo di questi riti di epoca greca e forse fenicia: vi si onoravano, a quanto pare, i Megaloi Theoi (grandi dei) detti Cabiri (dalla parola fenicia kabir o potente). Sulla loro natura abbiamo poche informazioni trattandosi di riti misterici, ma alcuni indizi (Apollodoro, Erodoto, Plinio ed altri) ci permettono di avanzare alcune ipotesi ben fondate e che sono state riprese magistralmente da Schelling nel suo Le divinità di Samotracia del 1815. Il primo fra questi – stando alla ricostruzione dello stesso Autore, è Axieros che, in lingua fenicia, sta ad indicare “la fame, la povertà ed in seguito il languore, il desiderio”. In quanto tale, “il primo di tutti gli esseri (Wesen) che diede cominciamento al tutto”, così come Eros, nella concezione orfica ed esiodea è divinità cosmogonica coevo di Kaos e Notte all’origine del tutto oltre che, per Platone, figlio di Penia (carenza). Per questo motivo Axeros viene accostato da Apollodoro a Demetra, la Cercante e affetta dal “mal di desiderare (sehn-sucht)”. Manifestandosi – nell’Inno omerico – come “io sono Deo (nome esoterico della Dea), colei che è malata di desiderio, la languente” nella ricerca della figlia Persefone rapita da Ade che, sempre nella triade dei Cabiri, vengono indicati come Axiokersa e Axiokersos). In un altro frammento fenicio (da Schelling p. 75) si dice ancora che “all’inizio era il soffio di un’aria oscura ed un torbido caos, tutto questo di per sé illimitato. Quando lo spirito dell’amore arse contro i propri inizi, nacque una contrazione e questo legame fu chiamato nostalgia (sehn-sucht) e questo fu il principio della creazione di tutte le cose”.
Lo stesso Schelling, citando Saint-Croix, associa Axieros a Pothos, definito da Platone nel Cratilo, come il desiderio struggente per qualcosa che non può mai essere raggiunto completamente. Nei confronti di himeros (amore appetitivo) e anteros (amore corrisposto) pothos si pone in un irraggiungibile “oltre”, quello della fantasia, della idealizzazione, della irrealizzabilità.
“L’iniziazione che immaginiamo avesse luogo a Samotracia (“isola eterna della psiche immaginale, della geografia psicologica” per Hillman oltre che isola vicina ai confine tra Grecia e Turchia) porta la coscienza del Puer alla consapevolezza della sua natura essenzialmente duplice. E’ proprio questa natura duplice che noi immaginiamo essere alla radice del suo pothos, del suo struggimento e del suo vagare pieno di nostalgia in cerca dell’altro perduto e mancante” (Hillman J., 1888, p. 14). E ancora” Nella nostra vita la presenza dell’alterità viene sentita come auto estraniamento, autoalienazione. Sono sempre un po’ straniero a me stesso e non posso mai conoscermi se non scoprendo l’altro che fantastico essere da qualche altra parte – e così girovago in cerca di lui o di lei. Questo mi fa sentire nella mia vita come ambivalenza, insoddisfazione, inquietudine. La divisione del sé, o sé diviso della moderna psichiatria, è la condizione primaria e non un risultato, un errore, un incidente” (op. cit. pag. 15).
La struttura coscienziale del Puer è caratterizzata dall’essere “ferito”, dall’autodistruttività (il desiderio di fallire, di cadere, una costellazione genitoriale che tende a demonizzare o divinizzare, a combattere la polarità Senex (ordine, lavoro, rispetto del tempo, dei limiti, della continuità e del radicamento nel concreto) e “spinto da una sorta di fallicismo a ricercare, a domandare, a viaggiare, a inseguire, a trasgredire ogni limite. E’ uno spirito “senza dimora” sulla terra; è sempre in arrivo da qualche luogo ed in partenza per qualche altro, sempre però di passaggio. Il suo eros è mosso dal desiderio. Gli psicologi disapprovano un tale spirito perché irrelato, autoerotico, dongiovannesco, perfino psicopatico” (p. 13).
Ho ritenuto interessante chiudere con questi riferimenti che rinviano il tema della “carenza” ad un elemento costitutivo della condizione umana e forse a quello che più di ogni altra, stando alle tradizioni citate, la identificano. Al di là degli aspetti clinici che la connotano in chiave patologica, merita quindi coglierne il senso archetipico come elemento co-essenziale al nostro essere-nel-mondo e quindi, in quanto tale, incurabile nella sua più intima natura.
Il brano è tratto da un saccio contenuto in: Craving. Alla base di tutte le Dipendenze.
Nizzoli, Caretti, Croce, Lorenzi, Margaron, Zerbetto. Mucchi editore Modena, 2011.