Il coraggio. Per quale motivo è importante parlare di coraggio? Con il corso in Intelligence economica, in rapporto al particolare paesaggio italico che vede le piccole e medie imprese sguarnite su questo fronte, il tentativo è di fare in modo che la cultura dell’intelligence sia condivisa dalle PMI, incoraggiando altresì l’intervento della parte pubblica, mi riferisco soprattutto alla Regione, il luogo più attinente alla situazione locale delle aree produttive. La grande questione morale nazionale è l’effetto di una crisi politico-istituzionale che è anche culturale ed etica della società italiana. Ecco perché affrontare il tema dell’intelligence non può esimere da un discorso sul coraggio, di idee e azioni.
Senza il coraggio è il nulla. Il fare esige l’incontro con il negativo, con la possibilità della caduta, della sconfitta e del rischio. Purtroppo la condizione che stiamo vivendo oggi appare come una sospensione, una dichiarazione di inutilità. Dopotutto il coraggio può essere sinonimo di avventatezza, come nella dialettica servo-padrone hegeliana; qui non si tratta di avventatezza ma di difendere i propri concetti di verità, la propria affermatività, la possibilità di fare qualcosa che prima non c’era. Parlo della compiutezza di una persona, che non deve ridursi a essere un mero strumento (un tempo si usavano parole ancora più taglienti – reificazione, alienazione, forse anche abusando di una certa terminologia); parlo della necessità di questo sentimento, di questa virtù soggettiva rappresentata dal coraggio, che proprio per il suo essere soggettiva è malvista giacché non può essere educata. Il coraggio, infatti, non può essere studiato, non esiste una lezione per insegnare a essere coraggiosi. Tuttavia è una condizione indispensabile perché è attraverso il coraggio che si dà inizio e si realizza qualcosa che prima non esisteva.
In sostanza, dentro il coraggio c’è la possibilità di essere significativi nel mondo. Attenzione, la significanza di una persona non è eterna, non possiamo rimandare a tempi prossimi quelli che sono atti di preparazione a difficoltà ipotetiche future; atti sollecitati dalla condizione del momento. Tutto dipende dalla contingenza, è qui che emerge la possibilità di esprimersi. In questo momento storico, invece, la possibilità di esprimersi è divenuta più gravosa del tacere. Ti è chiesto di seguire l’onda, di far parte dello “sciame”. Segui gli altri!
Eugène Ionesco sosteneva che “non pensare come gli altri vi potrebbe mettere in una situazione spiacevole, ma non pensare come gli altri significa semplicemente che si pensa”. La bellezza della vita, l’unicità, l’irripetibilità, la condizione di essenzialità della vita è solo nostra. Esistono senza dubbio affinità elettive, ma l’unicità dell’essere non ha l’identico, è il fare i conti con la possibilità di dispiegare le ali e di realizzarsi trasformando le cose, innanzitutto intimamente. La nostra intimità ha a che fare con la soggettività, con la nostra individualità: l’individuus è l’indivisibile, sei solo tu di fronte al mondo.
Coloro che hanno compiuto qualcosa di decente (senza scomodare l’eccellenza) in qualche modo si sono messi a repentaglio, si sono messi nella condizione di attraversare quelle che un tempo erano chiamate le iniziazioni. In realtà, i popoli del terzo e quarto mondo praticano ancora questi passaggi, queste congiunture delle esistenze, le cosiddette prove del fuoco in cui spesso si mette a repentaglio la stessa esistenza. E perché, verrebbe da chiedersi? Per una prospettiva degna di un salto di qualità, di un salto d’età. Questa è la condizione per sapere chi sei, sapere di poter essere qualcuno. I riti di passaggio, presenti in tutte le culture primitive, sanciscono il transito dall’età dell’incoscienza a quella adulta.
Come affermava Viktor Emil Frankl, neurologo, psichiatra e filosofo austriaco allievo di Freud, ne Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, 2007, la condizione della vita è quella del compito, . Frankl era fermamente convinto che l'essere umano è mosso dal desiderio di significato, più che dal bisogno. E una “vita significativa” è una vita fatta di compiti. È proprio nel rispondere a un compito che l'uomo può sperimentare la sua libertà in quanto si riconosce libero di agire facendo perno sulle sue risorse, anche se ciò "comporta uno sforzo e proprio perché comporta uno sforzo”. «Cos'è, dunque, l'uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che decide sempre ciò che è».
Tuttavia, ancor prima di intuire un compito c’è la possibilità di prepararsi a realizzarlo. Si vis pacem, para bellum, come dicevano i classici. La preparazione di questo compito è decisiva, è per natura ciò per cui si attua l’atto di coraggio. Un atto che oggi incontra un ambiente che ti promette un dolce agio mettendoti a disposizione infinite zone di comfort. Una dolcezza del vivere che dà origine a un pensiero debole, come teorizzato dal filosofo Vattimo e compagni, che parlavano di questa resa dell’affermatività umana, avvolta in un alone di tristezza rinunciataria con i suoi termini più ricorrenti: “crisi”, “negatività”, “declino”, “disincanto”, “abbandono, “oblio”, “tragico”, “morte”. Ma senza affermatività umana non si dà spazio al nuovo, si ripete come fa la natura, come gli animali e le stagioni. Si ripete il già saputo.
La comfort zone non è altro che questo eterno ripetere, questo andare nello stesso sentiero, già attraversato, già conosciuto, che pertanto non ti può riservare alcun rischio o pericolo. Siamo continuamente messi di fronte a questa scelta: il provare chi siamo. Un tentativo che già ci mette in una condizione privilegiata perché non tutti affrontano le cose “pre-parandosi”, sapendo che la vita è già marchiata dalla temporalità. La vita è segnata dal tempo, da una Natura che non è voluta da noi, da una nascita che non è determinata dalla nostra volontà. Eppure qualcosa di noi “superiore” deve esistere a questa condizione “naturale”. Ecco, questa ulteriorità è legata al rispetto di sé. Un rispetto di sé che è decisivo.
Secondo M. Foucault ne Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in H.L Dreyfus, Paul Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, fare di sé un’opera d’arte. «Quello che mi colpisce, è il fatto che nella nostra società l'arte sia diventata qualcosa che è in relazione soltanto con gli oggetti, e non con gli individui, o con la vita. […] Ma perché la vita di tutti gli individui non potrebbe diventare un'opera d'arte? Perché un tavolo o una casa potrebbero essere un'opera d'arte, ma non la nostra vita?». Certo che è possibile! Di tanta opacità che vedo, di tanto accondiscendimento del facile, se non del nulla e del poco, a te è chiesto oggi di stare nello sciame, nella corrente più nota e più potente esistente; di ubbidire in qualche modo a una condizione già disegnata per te. In fin dei conti, si potrebbe vivere meglio nell’omologo. Faccio come fan tutti. È un adattamento al globale, agli altri, che appartiene all’umano, al fondamento neurobiologico dei neuroni specchio. Ma la nostra presunzione ci chiede di essere qualcosa di più, magari stimolata dalle condizioni avverse (uno dei temi dell'accrescimento del coraggio è proprio lo stare davanti alle condizioni non gradite allontanando quel senso di risentimento per ciò che la vita non ci ha dato – l’incontro con il negativo, la sottrazione del desiderio di essere, il cui negativo estremo è appunto il “non essere”).
Il coraggio chiama la responsabilità non solo di un leader ma di un uomo che vuole da questa vita un’idea complessa, completa dell’esistere. C’è uno scrittore viennese, Musil, autore de L’uomo senza qualità, che intuisce ad un certo punto che la grandezza del Rinascimento italiano, soprattutto, stava nel suo prevedere un uomo “completo”. Un uomo che aveva avuto la grazia di esistere, il caso di esistere, la fortuna di esistere. Dunque, un uomo che doveva raggiungere questa completezza, provare, cavalcare l’occasione di esistere per poter essere “completo”. Ma cosa vuol dire “uomo completo”? Beh, soddisfare alcuni bisogni, non solo il mangiare ma anche l’amare, la possibilità di crescere, l’emancipazione, ottenere il massimo rendimento dalle condizioni favorevoli. In sostanza, una catena di elementi che ti garantiscono, ti donano la possibilità di una vita completa, che afferrano il possibile che si realizza attraversando il grande Bene della Terra, il grande Mistero dell’esistere.
Si può vivere accontentandosi (della provincia, della pace sociale, della famiglia). È la speranza dei disperati, come in guerra che si aspira a una casetta, a una vita semplice. Cose insufficienti per chi anela a una propria realizzazione, soprattutto per chi guarda alla condizione esterna non come una panacea gradevole, favorevole, ma vede nell’altro, nella socialità, nella politica, condizioni superabili, o addirittura di indegnità, di minorità (ovvero una condizione infantile imposta dall’esterno per ridurre la propria potenza e volontà di essere). Pertanto, chi ha coraggio di fronte a tutto ciò reagisce come a stimoli, pungoli. La vita è anche questo, la ricerca di stimoli, coglierli come elemento di apertura, come scelta per realizzarsi. Ciò vale specialmente per le persone che aspirano a situazioni di comando, a essere leader.
Viviamo in una società che ti dice segui le mode (dopotutto a questo servono gli influencer), segui la superficialità dell’esistere per essere felice, sii opportunista. Il coraggio non è opportuno, lotta contro l’opportunismo, crede a una verità dell’esistere, a un’idea di bene nella completezza; il coraggio è volontà di vivere, di cambiare ciò che ci circonda, e non di sopravvivere (o, meglio, di sottovivere). Vivere è qualcosa che ci supera. La bellezza della vita, la bellezza anche del negativo e delle iniziazioni, significa che si vive cercando di crescere attraverso le difficoltà, vincendole. Così alla fine non è solamente un superamento delle difficoltà ma un superamento di se stessi, di quello che siamo oggi per diventare chi dovrei (e vorrei) essere.
Questo superamento deve essere stimolato da qualcosa di potente dentro di noi, un’idea di forza e realizzazione, un’idea di giustizia e di riscatto. La prova del fuoco non è affrontare il pericolo, come nei popoli tribali, facendo i conti con l’avventatezza e la paura. Non si tratta di questo particolare equilibrio, la nostra razionalità ci impone di cogliere le occasioni del mondo, di superarle e di superarci. Gli incontri difficili, la prova di un lavoro incerto, la banalizzazione della società in cui si vive, un testo complicato vitale per allenare la mente. La bellezza è proprio nel superamento, “tu sarai un’altra persona”.
Ci si può trasformare. Esiste una metamorfosi della persona, esiste una metamorfosi del mondo che è in mano nostra, e il possedere questo sentimento è un atto euforico di egotismo. Il coraggio altro non è che una virtù egotica. Tu pretendi da te e alla fine pretendi dal mondo. Non siamo fatti per assistere ma per cambiare, trasformare. Chi più vive, meno assiste; chi più assiste, meno vive.
La passività oggi implica il non pensare, ci viene detto sommessamente, con spinte dolci, che si può vivere benissimo senza idee. Ma così facendo ne va della vita, si regredisce, si opera un processo di distruzione, di minorità e di infantilizzazione del pensiero. Meno si pensa, meno si vive. Invece, pretendere il mondo, dispiegare le ali del mondo, significa altro. Passare, crescere, trasformare. È il processo meraviglioso della vita: esistere per essere autori delle cose. L’uomo più infelice è colui che non lavora, affermava Schopenhauer; aggiungerei anche l’uomo che non trasforma, che non cresce, che non costruisce.
Possiamo affidarci all’esame di coscienza come metafora dell’intera esistenza. Soglie della vita. Oppure alla pianificazione di progetti di crescita. Sarebbe già una verifica. Come devo fare? Come mi approprio delle cose, della vita? Come la trasformo? Oggi cosa ho fatto per essere degno di ciò che mi è stato regalato, del Mistero di esistere? Sono sollecitazioni che ci mettono davanti allo specchio e che ci fanno chiedere: “Cosa sarò tra dieci anni? Che programmi avrò? Farò in tempo?”.
Ecco un altro elemento che il coraggio ti impone: fare in tempo. Se fossimo eterni non punteremmo su questa crescita, ma visto che il tempo è quello sancito dal Caso, dalla Natura, non possiamo prescindere dalla nostra temporalità. Il matematico Évariste Galois, grande interprete della branca superiore dell’algebra astratta, è morto a vent’anni perché con avventatezza ha sfidato a duello un militare francese di professione. Un incontro dall’esito fatale, lui stesso presagiva la certezza della sua morte in questo confronto impari. Il giorno del duello alle 5 del mattino viene infatti ferito a morte. Nell’arco della notte precedente il giovane Galois riesce però a far compiere all’algebra di allora un salto di trent’anni e, non avendo tempo, lo fa scrivendo unicamente le formule finali, i risultati e non l’intera sequenza logica, annotando ad ogni passaggio: “Non ho tempo”. Che questo alito della fine, della temporalità, attraversi l’intera esistenza, perché ciò significa poter accelerare la vita. Una vita che si può senza dubbio concentrare, essenzializzare. Paul Virilio parla costantemente di accelerazione, di temporalità accelerata.
Di solito il coraggio è vissuto dalle persone di successo come noia, all'opposto deve essere raccontato con la delicatezza, con la forza e il sentimento del romanzo, della poesia. I più grandi poeti non avendo fiducia nella propria razionalità la cercavano tra i versi poetici; persino i grandi filosofi hanno utilizzato come motore, come incipit per la propria opera, le intuizioni dei poeti. Severino ha fatto riferimento a Leopardi, Heidegger a Rilke e Hölderlin. Per essere completi bisogna accettare anche questa partita con i sentimenti, con le emozioni e le sensazioni. Rousseau sosteneva che le sensazioni hanno sempre ragione perché sono opera della natura e non della nostra presunzione razionale. La poesia è proprio questo, l’essenziale, ciò che sfugge agli occhi. E il coraggioso deve fare i conti con un frammento di felicità, un risarcimento del rischio. La teleologia, l’obiettivo finale, rimane il “vero” da raggiungere.
Si sa che il coraggio è solitudine, essendo una virtù soggettiva, intima. È solitudine ed ebrezza. La solitudine del comando, di chi ha la responsabilità, di chi vive la possibilità di fallire, decrescere ed umiliarsi (è un aspetto tragico del coraggio che deve sempre essere messo in conto); e d’altro canto l’ebrezza di poter dispiegare le ali, di guardare dall’alto una condizione, di dare serenità (perché nella solitudine del comando ti viene chiesto cosa fare, di rassicurare, soprattutto nei momenti più difficili). Il mondo si trasforma proprio attraverso atti coraggiosi che lavorano per il meglio, tirando fuori il meglio.
La linea d’ombra di Conrad spiega la possibilità di rifarsi, di imitare, guardare e assorbire, di edificarsi con atti significativi. È meglio sapere che esiste il dramma, qui e ora, piuttosto che drammatizzare la vita. Uno degli aspetti della fragilità umana sta nell’evitare di pensare alle situazioni di disagio o grande pericolo che la vita può dare. Pertanto “prepararsi” è una parola decisiva. La linea d’ombra indica proprio questa possibilità. Come Galois accelera i suoi tempi perché sa che deve morire, qui c’è un capitano che accelera i suoi tempi perché sa che deve vivere. vivere in tempo, attraversando tutti i momenti di disagio, tutti i momenti di minorità, per uscirne trasformato.
Le anime morte di Gogol’, Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, sono esempi di cadute dell’anima umana. Cadute che segnano per sempre le persone perché noi, alla fine, siamo quanto abbiamo fatto. Ricordiamocelo, noi siamo quello che abbiamo fatto! La speranza di un giovane sta nel “lo farò”. Attenzione però, il tempo agisce contro di noi, per cui l’accelerazione deve essere santificata. In che modo? Accrescendo la consapevolezza del dramma insito nell’esistere. Di fronte a difficoltà concettuali, lavorative, emozionali-affettive, dobbiamo pensare al “peggio”, si vis pacem… qui sta il passaggio razionale.
Il primo governo dell’irrazionalità del coraggio parte dalla ratio, dalla nostra presunzione di governare il futuro. Dopotutto il filosofo Baruch Spinoza ribadiva che la pace non è assenza di guerra ma una virtù, uno stato d’animo. E pure una disposizione alla benevolenza, alla fiducia e alla giustizia. Questo è un aspetto messo in forse nella società attuale dove vige lo stato di comfort zone. Una zona di conforto oggi assicurata da un altro elemento piombato nella nostra vita. La pandemia. L’Italia è un paese spaventato. Anche Hobbes diceva ai suoi tempi che è la paura il fondamento degli Stati, “l'interesse e la paura sono i princìpi della società”.
È la paura di un nemico ad aggregare le persone e a trasformare le regole in funzioni più alte. L’aspirazione è emanciparci, governare noi stessi e il mondo intero; costruire noi stessi come un’opera di qualità di cui avere rispetto. Si ha rispetto di ciò che si è fatto e non del rimpianto per ciò che non si è fatto. Chi ha rimpianti ha mancato troppe occasioni. Si possono persino avere troppi rimorsi nel tentativo di appartenere a una condizione che cambia le cose, essere dei leader, ma non rimpianti perché superarci è il dono della vita, compiere azioni più grandi di noi stessi.
“Non c’è felicità senza libertà. Non c’è libertà senza coraggio”. Una frase che viene dalla classicità dell’epoca periclea, un’endiadi complessa di grande contenuto semantico e poetico. L’euforia, l’atto dell’ebrezza di poter essere autori di qualcosa, ci pone in situazioni differenti dalla massa. Dobbiamo accettare come dono di natura questa differenza, tra chi ha il coraggio, la gioia di essere, la cognizione di rispetto di sé e una decisa volontà di dignità, e chi non osa. Ma chi ha coraggio migliora l’ambiente che ha intorno, la società, la comunità, la giustizia stessa ne guadagna.
Un villaggio diventa tale se c’è un giusto. “Il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra”, scriveva Solženicyn. È un giusto che aizza la tensione verso la giustizia, che costruisce la comunità. Ecco un altro obbligo morale, qualcosa che in ultima istanza ha a che fare con l’etica. Etica, una parola imprendibile che però qualifica un discorso che deve essere ripreso. Un discorso che riguarda l’idea stessa di dignità, di bellezza della vita.
Il canone storico occidentale diceva questo. Purtroppo oggi ci si dimentica di quanto c’è di meglio in Occidente. Intravedo in questa dimenticanza lo stesso pericolo della Sinistra, quando a suo tempo parlava di terzomondismo per cercare qualità altrove, forse per abbattere qualsiasi segno di razzismo (e questo è un bene) si è rinunciato alla crescita, al miglioramento della società attraverso il dibattito politico, affidandosi a qualcosa lontano da noi. Una ideologia para-comunista di fatto fintamente umanitaria e in realtà anti-occidentale.
Mai confondere l’umano con l’umanità. L’umano è il tuo essere, il tuo prossimo, i tuoi vicini; l’umanità rischia di essere afocale, rischia di essere un grande alibi, come lo è stato. La forza del coraggio permette di criticare ciò che è ormai accettato, consuetudinario. Guai contraddire lo spirito dei tempi, il pensiero unico dominante. La qualità deve vincere la quantità, si diceva in passato. Tuttavia, la crescita a dismisura della quantità cambia la qualità.
La vocazione dell’Occidente affermava, invece, che la qualità doveva salvare la quantità. Oggi non accade così, chi ha il coraggio di entrare nella vicissitudine di questo confronto? Chi osa confutare le tesi molto superficiali e infantili del pensiero che viene proposto come tema unico?
In riferimento alla qualità contro alla quantità, il canone occidentale imponeva la consistenza dell’esistere, la consistenza della persona. Costruire un ubi consistam, essere “tutto d’un pezzo”, dire quello che si fa e fare quello che si dice, avere una propria collocazione esistenziale e una propria identità personale.
Secondo M. Foucault, Discourse and Truth. The Problematization of Parresia, 1985; trad. it. Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 1996, ella parresia si suppone che non ci sia differenza tra ciò che uno pensa e ciò che dice. La parresia è legata al coraggio di fronte al pericolo: il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo, che nella sua forma estrema diventa un «gioco» di vita o di morte. Il parresiastes è, pertanto, qualcuno che corre un rischio. Questa integrità forma il rispetto e la fiducia che sia ha verso l’Altro a cui guardiamo, la sicurezza di sapere chi abbiamo davanti. Questa decisività della persona, questa unicità e misura che si può anche chiamare etica, porta a riconoscerci in qualcosa che è superiore a ciò che siamo: un dovere e un dover essere, la fedeltà in un dovere e la riconoscibilità in un dover essere. È proprio qui che si stabiliscono le fondamenta di una comunità, di uno stare insieme fidandosi reciprocamente. Altrimenti è la frattura, la fine di una nazione e della dignità di una comunità, il tradimento dei propri morti, della propria cultura, della propria lingua.
La classe dirigente futura auspicabile, degna e moralmente nobile, deve fare i conti con questa salvezza dell’intorno e ripeterci che non c’è rispetto di noi stessi se non c’è rispetto di appartenenza. Questo è un altro vincolo fatale che ci deve accompagnare. L’etica è dignità dell’esistere.
Sempre secondo M. Foucault, “Che cos’è l’illuminismo?” in Archivio Foucault 3 1978-1985, Feltrinelli, «La modernità non è semplicemente una forma di rapporto con il presente; è anche un tipo di rapporto che bisogna stabilire con se stessi […] il grande valore del presente è indissociabile dall’accanimento con cui lo si immagina, con cui lo si immagina diversamente da com’è e lo si trasforma, non per distruggerlo, ma per captarlo in quello che è.» In questo difficile gioco del coraggio, tra la verità del reale e l’esercizio della propria libertà, l’essere umano sperimenta la solitudine. Marco Aurelio dice “bisogna essere retti”. Ecco il rapporto dell’individuo che cresce facendo i conti con la propria dignità, altrimenti saremo sorretti o raddrizzati da altri che poi pretenderanno opportunisticamente di guadagnarci dalla nostra minorità. Vale per l’individuo, vale per il Paese.
Viviamo in un paese impaurito. Allontanandoci da un concetto di coraggio personale, soggettivo, esiste anche un concetto di coraggio sociale. Un coraggio etico, collettivo, che presuppone una intelligenza diffusa. Ora accade però il contrario, la stupidità è in crescita, la capacità di concentrazione è in forte calo. È il ritorno all’ebetudo mentis, sembrerebbe, di chi assiste e disdice, di chi è oggetto di controllo o, peggio ancora, di spietata sperimentazione, come sta accadendo al nostro Paese.
Il coraggio è un valore, una necessità e forza di esistere. Perché ogni nuovo inizio origina sempre da un atto di coraggio.
Ivan Rizzi
Letture:
Cuore di Tenebra – Joseph Conrad
Il coraggio: Vivere, amare, educare – Paolo Crepet
Discorso e verità; La cura di sé – Michel Foucault
La vita come compito. Appunti autobiografici – Viktor E. Frankl
Coraggio – Diego Fusaro
Senza paura. Per non perdere il bello di un mondo migliore – Davide Giacalone
Sano intrattenimento. Una decostruzione della passione al cuore dell'Occidente – Byung-Chul Han
Trattato del ribelle – Ernst Jünger
Il coraggio e la paura – Vito Mancuso
Bartleby lo scrivano – Herman Melville
La scultura di sé. Per una morale estetica – Michel Onfray
Scritti corsari – Pier Paolo Pasolini
Giovani e futuro; Leadership futura – a cura di Ivan Rizzi
L’eroe virile. Saggio su Joseph Conrad – Alberto Asor Rosa
Devi cambiare la tua vita – Peter Sloterdijk
Cattivi pensieri – Paul Valéry
O capitano mio capitano – Walt Whitman