Rainer Maria Rilke si domandava nelle sue Elegie Duinesi “che cosa ci ha creato così da sembrare, qualsiasi cosa facciamo, sempre in procinto di partire?” Forse la domanda se la saranno posta anche Giuseppe e Maria, della stirpe di Davide, con il piccolo figlio di Dio in procinto di nascere, sulla via per Betlemme. Una città invasa di gente per via del censimento delle proprietà e dei contribuenti, indetto dalle autorità imperiali Romane.
Una volta censiti si diventa “parte di” una comunità, di una casa comune, fiscale ed economica, per lo meno, poi forse anche culturale. Sono li per farsi riconoscere come ospiti di una certa terra di una casa comune, secondo la legge. Se sei dentro una casa, puoi iniziare ad esercitare la capacità d’essere ospite ed ospitare. Parenti, amici, connazionali, la tua gente, secondo la stirpe. Può essere una spelonca del caravanserraglio, può essere la casa degli sposini che per la prima volta entrano dopo il patto nuziale, può essere una nazione. Tutti alla ricerca di una casa nella quale essere accolti senza rifiuto, per sostare, per stare, per trasformarci da alieni in amici. Tutti in cerca dell’assoluto dell’ospitalità.
Ospitalità e reciprocità
Nel nostro tempo l’esperienza di Giuseppe e Maria si ripete. Questo insopprimibile istinto di viaggiare in cerca d’ ospitalità, per essere “parte di” pervade ogni ambito sociale, politico ed economico, si pensi alle grandi migrazioni in atto, alla libera circolazione nell’unione europea, solo per citarne due. Tutto sta dentro il grande tema della casa e di chi è ivi riconosciuto come ospite. Posso chiedere ospitalità se poi sarò io stesso in grado d’ospitare. C’è reciprocità di condizioni, nell’agire l’ospitalità. Si varca la soglia o il confine, dal noto all’ignoto, fra ciò che rappresento Io e ciò che è l’Altro e ci si incontra. Quello che accade a te accade simmetricamente a me. L’incontro ospitale nel quale l’alieno diventa ospite e forse amico diventa il rito dell’incontro fra umani. Accade in amore, nel combattere per possedere -incontrarsi con violenza-, nel darsi pace donando qualcosa -simbolo del prendersi cura del cammino d’altri- un amuleto di protezione o d’incantesimo maligno, come il cavallo di Troia.
L’ospitalità è lo stare dentro il rito dell’incontro, dentro un tipo di reciprocità, nel quale ci possiamo aspettare d’ospitare un figlio di dio (magari nascosto nella pancia di una giovane straniera), oppure di incontrare il nostro prossimo nemico o magari il migliore dei nostri amici o affetti. Magari vedendo Maria in cinta qualcuno preferisce avere “altri ospiti” che danno meno noie, persone che rischiano di sostare più di 3 giorni -limite massimo di sosta indicato in molte culture e precetti religiosi. Subentrano altre leggi e regolamenti e consuetudini, che sono la versione secolare dei precetti religiosi e prim’ancora delle regole antiche di culture “pagane”. Posso tenere una casa vuota di senso, perché i fidanzati non si sono ancora sposati. Posso fare come Giuseppe e Maria che trovano casa da loro in un vano che non è una stanza d’albergo, ma una casa temporanea, per sostare, diventano ospiti di loro stessi. Sono accolti e nel contempo cercano di rendere casa ciò che casa non lo è.
Ma potranno sostare a lungo e diventare cittadini in quelle terre, solo contando sul denaro che otterranno partecipando all’economia del luogo? Si scopre così un ulteriore elemento che condiziona l’ospitalità, legato alle regole del denaro. Posso ospitare chi dimostra di poter pagare e posso essere ospitato se posso pagare. Non si parla di ospiti che arrivano a casa di qualcuno e ricevono i ristori del viandante ed un dono di commiato, per cementare un incontro vincolandosi alle reciprocità del dono. Si parla di gente che viaggia e compra quello che gli serve, se commerciante vende le mercanzie che trasporta con sé.
Ospitare nella casa
Girando attorno al temine Ospitalità, ci si sente come qualcuno che guarda dal di fuori una casa, senza entrarvi e senza sapere chi la abiti, interrogandosi sul come sia al suo interno. Non diversamente dalle altre parole, le case sono case piene di significati. I significati sono i ricordi, le persone, gli oggetti, i colori, i sapori, le forme, le voci. Più hanno una storia alle loro spalle, più saranno piene di scatole di significato. Soffitte e scantinati ingombri, dei quali dimenticheremo gli inventari ed i contenuti. Eppure, a guardare queste case parole, ci pare di conoscere tutto di loro. Per la parola Ospitalità succede lo stesso, l’inventario dei significati è perduto, se mai è esistito. Tutti sappiamo cosa significa Ospitalità ma quando ci dedichiamo a descriverla o definirla, ci perdiamo in miriadi di sensi anche contrapposti.
Un valore assoluto o relativo?
Vogliamo essere ospitali con i nostri amici o coloro che si pensiamo potrebbero diventarlo. Questa è forse la sola premessa universalmente condivisibile. Potremmo dire un valore assoluto, oppure una norma o magari un rito, o tutto questo insieme ed altro ancora. Il valore dell’ospitalità sta nelle sacre scritture, nelle divinità d’ogni cultura, musulmana, giudaica e cristiana, zen, shintoista, confuciana, fra gli aborigeni australiani, fra gli indios del sud america e nell’immensa e variegata cultura del continente africano, fra gli inuit e ne dimentichiamo la maggioranza e tutte le culture distrutte dai genocidi. Dalla religione sono poi state tradotte, forse distorte, in ambito politico, economico e sociale; attraverso i secoli. Per consentire all’ignoto di varcare la soglia del nostro confine e permetterci di varcare quella d’altri, ci serve qualche tipo di titolo di passaggio.
Il riconoscimento del nostro status fonda il tipo di relazione ospitale. Ci serve capire chi sia il nomade, l’esploratore, il commerciante ed il naufrago in cerca di casa e chi sia colui che sta sulla porta ad attendere. Nel riconoscimento ci sarà possibile capire il senso del nostro insopprimibile bisogno di partire.