Le top model furono una felice intuizione.
Inventate da Versace, coccolate da Armani, amate da Valentino, erano inarrivabili. Dalla Venere Nera a The body, da Cocaine Kate a Boring Carla, le indossatrici famose negli anni ’80/’90 sapevano interpretare e divulgare lo stile di un brand. Ognuna conservando il suo carattere distintivo.
Avevano portamento, classe, eleganza, erano pantere, giraffe, gazzelle.
Erano il valore aggiunto dell’eccellenza. Gli stilisti le enfatizzavano, le celebravano e le mettevano su un piedistallo. Disegnavano capi da sfilata apposta per loro. Per la loro perfezione. Il pubblico le amava. I giornalisti del settore le studiavano, le seguivano. I paparazzi le tallonavano.
Dal lavoro al privato le top model erano sempre sotto i riflettori.
Erano dee, muse, bellissime, presuntuose, capricciose.
I loro ingaggi erano da capogiro.
Le top model vivevano dentro un sistema dorato e spietato, un apparato che non perdonava fragilità e, tanto affascinante quanto stritolante, poteva essere distruggente.
Naomi Campbell, Elle Macpherson, Kate Moss, Carla Bruni, sono solo alcune delle top model degli anni ’80 e ’90 hanno segnato un'epoca quella in cui i nostri grandi stilisti erano eletti ambasciatori dello stile italiano nel mondo e dettavano i canoni del Made in Italy.
Gli stilisti avevano illuminazioni, erano innovativi, assecondavano il coraggio del loro talento, ognuno col suo carattere distintivo, senza cadere nella tentazione di copiarsi, imitarsi, oscurarsi.
Sapevano creare e offrire proposte diverse, supportati dal proprio guizzo geniale. Hanno dato vita a modelli di stile, avvicinando lo spettacolo all’alta moda e l’alta moda allo spettacolo, hanno coinvolto e conquistato le celebrità amate dal pubblico, da Madonna a Elton John.
Dalle passerelle alle riviste patinate, da modelle a stelle, le top model restavano in auge, non il tempo di una sfilata, ma per diverse stagioni: non erano prodotti a scadenza.
Avevano carattere e determinazione.
Erano competitive ed esclusive, esattamente come gli stilisti, come i sarti, per i quali sfilavano.
Una élite amata e desiderata dal pubblico divenne parte di questo fermento di mondanità, dando vita a un ventennio di vero folgore di creatività che consacrò il successo di alcuni grandi firme in un continuo crescendo.
Poi questo climax è stato lentamente annientato.
Le top model sono state adombrate da top influencer, web star, social victim che, con video di pochi secondi e selfie, enfatizzano se stesse, e non sostengono un prodotto, indossando outfit talvolta improbabili. Sono come delle vetrine, in cui vi è un misto di tutto, non vi è un'identità o un carattere definito.
Le top model, nel ventennio citato, sapevano indossare un capo, in tutte le sue declinazioni, sapevano esaltarlo, con i loro corpi statuari.
Oggi è il prodotto che dà “valore” (prettamente commerciale) alle innumerabili influencer e non viceversa.
L'influencer esercita uno strapotere senza alcuna autorevolezza: scatena un gioco alla simulazione e fa credere di essere un consumatore del tal prodotto, creando una falsa interpretazione della moda. La tendenza che si genera è quella all'immedesimazione con l'influencer stessa e non alla valorizzazione o alla conoscenza del prodotto.
Ci sono ragazzine disposte a pagare seicento euro per farsi immortalare con l'una o l'altra influencer. Ci sono giovanissime disposte a spendere un capitale pur di avere il capo di abbigliamento o l'accessorio vantato da questa su Instagram.
L'influencer non ha conoscenza e competenza della filiera o del mercato. È protagonista del Marketing di influenza e mette al centro dell'attenzione se stessa a discapito del prodotto e del mercato. Se dovessimo dire per quale brand o per quale prodotto la tale influencer si presta a racimolare follower è pressocché improbabile definirlo, perché il brand principale dell'influencer è il suo stesso interesse personale, il suo Ego.
Le influencer sa come farsi seguire sui social, come attirare follower e come guadagnare con la moda senza però conoscerne il mercato, senza riconoscere materiali, tessuti, pellami, modelli, tagli e senza viverci dentro, senza poter respirare quell’alchemica genialità del passato, senza alcuna celebrazione se non quella autoriferita.
È un “giocare alla moda”, senza competenze, come lamentato recentemente da Valentino, invece le top model avevano competenze in materia sartoriale, conoscevano la filiera e le regole del mercato, vivevano in quell’ambiente, tra tessuti pregiati e passerelle, erano professioniste qualificate.
C’è la tendenza a sostenere (forse senza alcuna consapevolezza) il mercato del cattivo gusto.
Le figure di propaganda della moda oggi non sono qualificanti, non tutte almeno. E c’è molta confusione tra i ruoli.
Gli influencer, per Alviero Martini, sono "alieni del nostro passato, sbarcati da un pianeta sconosciuto e ignorano la nostra storia. Sono i nuovi mostri della comunicazione”.