Il cristianesimo considera la temperanza una delle quattro virtù cardinali, in quanto cardini della sua dottrina. Insieme a prudenza, giustizia e fortezza, è stata oggetto di approfondimento fin dall'antichità classica.
È un tema di stretta attualità in tempi bui come quello che stiamo attraversando, con una emergenza sanitaria mondiale dovuta al corona virus.
Questa emergenza ci dà l'occasione di riscoprire la temperanza attraverso la lettura dei grandi autori del passato.
Dante, nel primo canto del Purgatorio della Divina Commedia, descrive l'azione della temperanza con questa metafora: "Io vidi già nel cominciar del giorno la parte orientale tutta rosata e l’altro ciel di bel sereno adorno ; e la faccia del sol nascere ombrata si che per temperanza di vapori, l’occhio la sosteneva lunga fiata". (Ed il sole stesso sorgeva velato, così che, per il filtro dei vapori, l’occhio poteva sostenerne più a lungo la vista).
La temperanza quindi, secondo Dante, rende chiare alla vista le forze che potrebbero accecarci.
Dante ci viene in aiuto nel rappresentare un concetto di millenaria sapienza, la necessità di temperare la forza delle energie primarie e delle pulsioni più ancestrali.
In un famoso quadro del Pollaiolo, artista del XV secolo, la temperanza è raffigurata mentre versa l'acqua nel vino per temperarlo, per renderlo più leggero.
Quindi mescolare consiste nel trovare una giusta misura. Che vuol dire mettersi in relazione in maniera costruttiva, con se stessi e con gli altri, governando e temperando desideri, passioni e paure.
Per praticare la temperanza bisogna aver costruito una buona muscolatura psichica, ovvero trovare un orizzonte personale, fondato su una propria visione del mondo all'insegna della moderazione.
Spesso i comportamenti "intemperanti" diventano distruttivi nei confronti di se stessi e degli altri. Annichiliscono il pensiero, impediscono la ricerca della misura.
Assecondare gli eccessi dannosi con un "perché no?", significa non calcolare le conseguenze. È sinonimo di una posizione fragile, dove manca una riflessione e una meditata scelta personale.
La società di oggi, nella quale molte vite in apparenza trasgressive sono propagandate dai social network, finisce spesso con il prediligere un allineamento generico e acritico.
Viviamo in tempi in cui i punti di riferimento rischiano di essere vaghi e confusi.
Così la temperanza che, da Aristotele e Platone veniva fatta coincidere con la sapienza, sembra non avere più ragione d’essere, perché non si deve più scegliere, né porre freni agli eccessi.
Tutte le forme di dipendenza, alcool, droga, gioco e sesso, che costituiscono una forma di limitazione della propria libertà, derivano da quell'iniziale "perché no?" e quindi anche dalla mancanza di temperanza.
Perché si è incapaci di dire "no"?
Perché interviene, tra l'altro, una forma di irrazionalità acritica in cui l'individuo arriva a persuadersi che sia logico e inevitabile aderire all’eccesso pericoloso pensando di "aver tutto sotto controllo".
La temperanza invece è una consapevole forma di autocontrollo che non reprime ma aggiusta il proprio senso del limite.
La temperanza può aiutarci a superare le nostre paure. Pier Paolo Pasolini diceva che "la luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci" (Le ceneri di Gramsci).
Questo verso si addice al nostro presente contrassegnato da un frangente imprevisto come un'epidemia virale di portata mondiale.
"Nec spe, Nec metu"(Né con speranza, né con paura) è il motto fatto proprio di Isabella d'Este (1474-1539) figura preminente nell'Italia del Rinascimento.
Questa donna aveva capito che una visione del mondo mitigata dalla temperanza può essere di grande aiuto, anche in situazioni dove il vivere si presenta drammatica e fonte di paura.
Ci possiamo chiedere se questo motto, che gli Estensi e i Gonzaga scelsero per il loro stemma, possa essere visto anche oggi, come un invito alla temperanza, e quindi a un atteggiamento realisticamente responsabile nei confronti di sé stessi e degli altri.