“Erano i capei d’oro a l’aura sparsi/ che ’n mille dolci nodi gli avolgea,/e ’l vago lume oltra misura ardea/ di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi” recita Petrarca in una delle sue più celebri e celebrate poesie: il sonetto 90 del Canzoniere.
I capelli sono la cornice del viso, ornamento della figura umana, ma anche simbolo di personalità, di carattere, di moda. Lunghi, raccolti, scapigliati, eleganti, raccontano tanto di noi, e soprattutto raccontano tanto delle donne. Non a caso quando una donna cambia acconciatura si ritiene che stia cambiando anche vita. Sono spesso un manifesto, un modo di essere.
La letteratura ha celebrato in mille modi i capelli, in tutti i secoli, quella italiana in particolare. Chi non ricorda “sparse le trecce morbide sull’affannoso petto”, dell’Ermengarda di manzoniana memoria? E chi non ricorda il doloroso taglio dei capelli di Jo di Piccole Donne, quando vende la sua magnifica chioma per aiutare economicamente la sua famiglia? Per non parlare delle eroine dai capelli rossi, simbolo di libertà e di spregiudicatezza, come Pippi Calzelunghe, la bambina dalle trecce rosse creativa ed altruista, idolo di tante generazioni di future donne.
Anche nella storia non mancano i riferimenti in cui un taglio di capelli definisce personaggi celebri. Il taglio di Cleopatra è rimasto nei secoli, come simbolo di potere al femminile. Nel XX secolo la cura dei capelli non diventa più un tratto distintivo delle classi superiori, ma è aperto a tutti i ceti sociali. Il taglio corto definisce il modello di una donna più decisa e attiva nella società, diviene un simbolo di riscatto. Il capello lungo diventa più curato, i parrucchieri che curano anche l’igiene e la salute del capello, oltre che la sua bellezza, diventan figure importanti della società.
Peccato che dalla gioia di curare e valorizzare una così bella parte del nostro corpo siano escluse tante, troppe donne, socialmente costrette a nascondere per tanta parte della giornata le loro chiome, e talvolta anche il resto del loro corpo. E quello che accade in tanti paesi dell’Islam più retrivo, così come accade in una minoranza dell’Ebraismo Ultraortodosso. Anche nel nostro paese ci stiamo abituando alle donne velate, che cancellano una parte di sé. Difficile stabilire se la scelta è volontaria. In alcuni casi lo è, specialmente nelle donne che hanno un forte spirito identitario e che mostrano la loro appartenenza religiosa o etnica alla maniera delle suore, che tuttavia arrivano al velo dopo un percorso di studi e di vocazione lunghissimo, con la libertà, negli anni attuali, di tornare allo stato laicale. Libertà, che, occorre dirlo, era assai limitata nei secoli scorsi, come ci illumina Manzoni nella storia della Monaca di Monza. E’ comunque una scelta estrema, quella delle suore, molto rara, ormai, e legata a una dimensione comunque parasacerdotale, una sorta di divisa come quella dei militari.
Parlando a livello laicale, il velo sembra un residuo di un’epoca passata, di controllo del disordine sociale potenzialmente provocato da liti tra maschi per le proprie femmine. Una volta sposate, le donne non possono esporsi alla concorrenza di altri uomini rispetto al marito, sono coperte il più possibile, anche quando interagiscono con il mondo lavorando o andando a fare la spesa. In questo modo gli uomini non litigano tra di loro per contendersele. I capelli, poi, anticamente, erano associati ai peli pubici in alcune culture, fatto che eccitava sessualmente i maschi.
La previsione è che l’istinto censorio di certe tradizioni, talvolta accompagnato da raccomandazioni religiose (non obblighi, ma comunque è innegabile che la comunità tende a privilegiare fisiologicamente chi si spende di più a livello di pudicizia) possa cessare con la consapevolezza che certe pulsioni tendono a edulcorarsi nelle zone dove c’è maggiore socialità e istruzione.
Tuttavia, in Occidente, molte donne di religione musulmana e di lingua araba sono punite dalla famiglia d’origine se si discostano dallo stile di vita delle loro madri o antenate. Talvolta anche con la violenza o con la morte. A mio avviso è responsabilità degli esponenti religiosi condannare questi atti estremi, così come fanno esponenti di altre religioni, e, anzi, cercare di spiegare ai loro fratelli di fede come sia legittimo per una donna decidere se mostrare o no i capelli, che i capelli non sono il demonio. Che tenere un comportamento pudico è nell’anima della persona, non è una mera prerogativa di chi porta un velo. Che poi anche gli uomini con i capelli lunghi sono belli, pensiamo a film come “Vento di passioni” dove il protagonista ha chiome fluenti ed è molto desiderabile sessualmente. Dobbiamo quindi mettere il burqa anche a Brad Pitt?