Eros e pathos: perché così inscindibili?

19 Marzo 2023



Eros e pathos: perché così inscindibili?
Eros e pathos: perché così inscindibili?

“Non c’è rosa senza spina”, un antico adagio a cui se ne potrebbero avvicinare altri come “croce e delizia” della Traviata. Un tema che fa talmente parte dell’immaginario collettivo da cadere nella “logica dell’ovvio”: in quella vicinanza allo sguardo che ci impedisce di scorgerne la forma e i confini. Ed è su questo interrogativo che vorrei soffermarmi. Lo faccio sulla scorta di una riflessione che conduco in seno alla Learning Community della Scuola che dirigo, il Centro Studi di Terapia della Gestalt, nella quale “Eros, agape e philia” rappresenta il tema di un corso inserito nei training, mentre “Le relazioni intime” rappresentano il filo conduttore di incontri quindicinali.

Echi archetipi

Che Eros sia così intimamente congiunto a Pathos non è cosa nuova. Occorre qui ricordare la duplice natura sempre associata al tema di Eros. La sua natura luminosa e dolce «In primissimo luogo sorse il Caos, poi Gaia [...], ed Eros che, bellissimo fra gli dei, immortali, sciogliendo le membra doma nel petto di tutti gli dei e di tutti gli uomini il cuore e il saggio volere» e la sua dimensione “pathica”, come nella poesia arcaica di Saffo «Scuote l’anima mia, Eros, come vento sul monte che irrompe entro le querce e scioglie le membra e agita, dolce, amare, indomabile belva» o Anacreonte «Come tagliatore d’alberi mi colpì con la sua grande scure, Eros, e mi riversò alla deriva d’un torrente invernale» a cui fa eco Platone che, nel Simposio, asserisce come «Eros è un demone possente che sta tra i mortali e gli immortali». E ancora, come riferisce Socrate: «Figlio di povertà (Penia), Amore non è affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì duro, ispido, scalzo, senza tetto».

Duplicità, questa, che compare anche nella concezione binaria di Empedocle di Agrigento che indica come gli elementi costitutivi dell’universo - fuoco, aria, terra ed acqua - sono soggetti a due forze (archai) contrapposte: una che unisce ed aggrega (Philotes o Philia) e una che divide e disgrega (Eris o Neikos). Secondo un’altra concezione (vedi Proco fr. 3 D.K.) Zeus, trasformatosi in Eros, «fonde insieme e armonizza gli elementi del cosmo tra loro ostili» ed è alla potenza di Eros che si deve la continua ri-creazione del mondo. La sua stessa potenza, tuttavia, può essere foriera di sventure laddove irrompe in persone sprovvedute e troppo vulnerabili alla forza delle passioni. In tali casi la passione perde la sua valenza divina. Richiamando Plutarco (cfr. Gilda Tintorio, 2006) «è un istinto naturale per uomini e donne desiderare un piacere reciproco, ma quando siamo spinti all’unione con troppo ardore e violenza sfrenata, non è giusto parlare di Eros» e ancora «tanto debole è la grazia di Afrodite e facilmente porta sazietà, quando non è Eros ad ispirarla». O forse, pur restando divina, la forza di Eros ne fa, nei versi di Alceo (fr 327 Lobel- Page) «il più terribile degli dei».

Interessante è notare come in tutto il mondo greco Eros è comunque un Dio.
Anche se le conseguenze di Eros sembrano devastanti, e quali mai lo furono maggiormente che nel racconto di Elena di Troia, la teoria della “doppia determinazione” (poi ripresa, con la parafrasi della “sovradeterminazione”, da Frued) fa dire alla stessa eroina «non sei tu responsabile per me, lo sono gli dei che hanno provocato la terribile guerra con i greci» (da Gorgia, Encomio di Elena). Anche per Omero (Odissea, XXIII 218-24) «Ma fu un dio che la spinse a compiere l’azione indegna; non vide prima nel suo cuore la colpa funesta, da cui anche per noi è cominciato il dolore».

Anche nella favola Amore e Psiche, Apuleio (cfr. Bontempelli M.) fa dire alla fanciulla innamorata «Preferirei morire cento volte, anziché essere privata di questo tuo dolcissimo connubio. Perché, chiunque tu sia, ti amo e mi sei caro più di ogni altra cosa, più della stessa anima». Anche le sofferenze più crude vengono quindi riscattate da una pienezza di “senso” che le fa dire «tutto quello che so me lo hanno insegnato le penurie, le miserie e le sofferenze d’amore». Compare quindi il grande tema del collegamento tra “Eros e Conoscenza”, colto già nel Simposio platonico ed esplicito titolo di un prezioso contributo di Lou Salomè che accompagnò l’esperienza conoscitiva di Freud sul tema della libido sino ai suoi ultimi giorni.

La dimensione psicologica del pathos in amore

Sono molteplici i tentativi di comprendere la inscindibilità dell’esperienza amorosa da quella “pathica”. Ma cerchiamo di fare alcuni cenni indicando il filone di indagine intercettato dai diversi Autori.
La minaccia al narcisismo. Eugénie Lemoine-Luccioni (1998) individua la sofferenza in amore come espressione del faticoso passaggio da un amore narcisistico ad un amore per l’Altro-da-sé. «E’ il mondo dell’Altro che causa turbamento, che provoca la vertigine» ci ricorda Carotenuto (1989) «Solo l’Altro ha il potere di incrinare l’equilibrio che ci siamo costruiti, facendoci cadere» (ibidem).

La fascinazione amorosa contraddistingue, come poche altre, l’esperienza amorosa e viene da Flaubert (1984), descritta come spesso foriera di valutazioni dispercettive per il fenomeno che Freud (1921) collega alla “idealizzazione” come una tendenza che falsa il giudizio, che conduce, nelle infatuazioni amorose, ad un oggetto che divora e ad un lento auto-sacrificio dell’Io.

L’assimilazione all’altro rappresenta un corollario della idealizzazione amorosa. «L'amore rende uguali» ci ricorda R. Barthes (1979). «L'amore vuole risparmiare all'altro, al quale si consacra, ogni senso di estraneità. Conseguentemente è tutto un fingere e un assimilarsi, un continuo ingannare e recitare la commedia di un'uguaglianza che in verità non esiste» (ibidem). Di qui l’opportunità di rompere un’identità auto limitante attraverso l’esperienza amorosa, ma anche di perderla nel con-fondersi con l’altro.

La trasfigurazione è un fenomeno identificato già da Omero e ripreso da Platone nel Simposio quando afferma come «Non c'è nessuno che sia così vile che Eros non trasfiguri rendendolo divinamente ispirato alla virtù, al punto da farlo diventare simile a chi per natura è valoroso in sommo grado». A questa può seguire una dolorosa delusione.

La voracità appetitiva. il desiderio può incorrere ancora nella dimensione distruttiva sull’oggetto di desiderio. «Everybody kills he loves» citava Oscar Wilde ed anche una donna consacrata a Dio come monaca (Eliosa), ma innamorata (Abelardo, 1994) conclude con una confessione dolente «Il mio amore mi ha condotto a tale follia che ha allontanato da sé, senza speranza di riaverlo mai più, l’oggetto stesso del suo desiderio».

La sensazione dell’infinito. Trascendere il senso di “finitezza” è, paradossalmente, «una delle caratteristiche peculiari dell’esperienza amorosa, la sensazione dell’infinito» (A. Carotenuto, 1989). La stessa, tuttavia, può tradursi nella delusione allorché l’aura idealizzante lascia il posto ad una valutazione più realistica dell’amato.

La vulnerabilità. Eros, come del resto Afrodite e Dioniso, è “lusimeles”, scioglie le membra. La sua funzione è quella di unire, confondere, mescolare elementi diversi per trarne una nuova vita. Per svolgere questa funzione sa sciogliere le difese, le diffidenze, le “corazze”, ma, così facendo, ci rende esposti, vulnerabili, così come ricettivi e duttili nell’aprirci all’Altro.

Le reciproche ombre. Emblematica l’espressione di Carotenuto (1989) quando afferma che «all’interno di alcune coppie, la [...] forza e l’inscindibilità del legame è basata sull’incarnare reciproche Ombre. Per quanto alto possa essere il nostro livello di integrazione, per quanta elevata sia la nostra dimensione etica, ci sarà sempre al nostro interno una dimensione distruttiva che preme per esprimersi».

La distruttività. La cronaca nera non manca di riferire giornalmente di passione fuori controllo, infantilismo, problematica caratteriale e povertà valoriale. Valga per tutte il racconto Il diavolo di L. Tolstoj (1889) che si conclude con un tragico epilogo.

La dinamica auto-amplificante del desiderio. È comprensibile che di una cosa buona se ne voglia di più e sempre di più. Ma è proprio nella dismisura il meccanismo di interruzione del processo. Di qui l’etica epicurea, e greca in generale, a sostegno del “metron ariston”, del ricordare cioè che sta nella misura la cosa migliore. Puntuale il richiamo di Proust ne La strada di Swann: «Calma non può esserci nell'amore, perché quel che si ottiene è sempre solo un nuovo punto di partenza per desiderare di più». Desiderare quello che ci manca. È la mancanza dell’oggetto d’amore che crea la tensione desiderante senza la quale il desiderio stesso si acqueta sino ad estinguersi. Tale dinamica crea il “moto perpetuo” del paradosso amoroso. Un uscire da se stessi «Chiameremo "libero" l'uomo che possiede se stesso o l'uomo della passione che cerca di essere posseduto, spogliato, gettato fuori di se medesimo, nell'estasi?» si chiede D. de Rougemont (1977). Questo richiamo misterioso alla “ex-stasi”; all’uscita da sé riunisce quanto di più innovativo e rivoluzionario possa capitare ad un individuo a ciò che lo rende più vulnerabile ed esposto a catastrofici sovvertimenti. Ma già Socrate si riferiva a Eros come atopos (senza luogo). Come puntualmente ci ricorda Galimberti (1996): «Amore non è cosa tranquilla, (...) L'amore, infatti, porta fuori dal luogo (topos) dove solitamente si svolge la vita, crea uno stato di sospensione in cui spazio e tempo perdono estensione e durata. Estraneo all'ordinato scorrere della quotidianità, l'amore è atopos, è fuori luogo».

Dipendenza, contro dipendenza e interdipendenza. Sul tema della dipendenza si innesca il tema del potere con gli inevitabili corollari del sadismo e del masochismo. Come ci ricorda F. Nietzsche (1881) «II carattere passionale dell'amore consiste nella dualità insuperabile degli esseri».

Ovvero per E. Fromm (1957) «un “egoismo a due” regolato da “una fusione senza reciprocità”, dove il desiderio di dominio dell'uno si coniuga con il desiderio di sottomissione dell'altro».
O nella «dipendenza nella quale l’opinione intravede la condizione stessa del soggetto amoroso, asservito all’oggetto amato» a cui accenna Roland Barthes (1977).

Soggetto di amore. La abituale enfasi sui pregi o carenze dell’oggetto d’amore va ricondotto alla importanza del “soggetto amante”. L’amore accade, ci ricorda Osho (2005) non quando trovi l’ideale di amato/a che cercavi ma «quando sei cresciuto. Quando sai che l’amore non è un bisogno ma un “traboccare”, “quando non hai amore, chiedi all’altro di dartelo; sei un mendicante e l’altro chiede a te di darglielo; ebbene, due mendicanti che tendono le mani l’uno verso l’altro ed entrambi sperano che l’altro abbia amore, ovviamente entrambi alla fine si sentiranno sconfitti, ingannati».

La crescita. In questi termini, l’amore va visto sotto un’angolatura che ne sottolinea la componente “agente” (in grado di muoversi consapevolmente) e non “paziente” (da passività-passione) con tutte le implicazioni etiche e psico-evolutive che questo processo accompagna. «Nel matrimonio, infatti, per dare la parola a Adolf Guggenbuhl-Craig.(2007) non si ha a che fare con il benessere e con la felicità, ma, [...] con la salvezza. Il principio “finché morte non ci separi” non ha niente a che fare con il benessere e con la felicità; i percorsi di salvezza sono numerosi, esistono tante vie individuative quanti sono gli uomini; il matrimonio è una via di salvezza tra tante e a sua volta ha in sé molte differenti possibilità».

Se mai fosse possibile concludere:

Se è vero che la nostra esistenza viene concepita in un atto di amore (o comunque di erotismo collegato alla congiunzione sessuale dei nostri genitori) non è meno vero che la nostra stessa esistenza inizia con una traumatica separazione: «il trauma della nascita» come ha messo in evidenza Otto Rank nel saggio che porta lo stesso titolo. Questa separazione rappresenterebbe l’origine di quella “fissazione primaria” alla madre che, se non superata, sarebbe all’origine della nevrosi come “rimozione originaria”.

Come ricordavo in un precedente contributo (Zerbetto R., 2011) «La verità biologica di questo evento inaugurale dell’esser-ci – o dell’essere “gettati nel mondo” per usare una espressione di Sartre – si proietta emblematicamente in un racconto delle origini che rappresenta il mito fondativo della concezione giudaico-cristiana. Un angelo di fuoco caccerà i nostri progenitori da quell’Eden primario dove tutto veniva concesso senza sforzo alcuno ad una dimensione fatta di fatica. Questa stessa divaricazione tra soggetto e oggetto (oltre e più che la stessa traumaticità del parto) rappresenta l’incrinatura tragica a cui ogni essere vivente è condannato nell’affacciarsi al mondo. Una dimensione traumatica che, come sappiamo, disperatamente cercheremo di neutralizzare regredendo ad uno stato di coscienza (se non di realtà) non-oggettuale attraverso gli infiniti tentativi di ricerca coscienziale che puntano elettivamente a trascendere la dimensione “oggettuale” per recuperare quel beatifico “perdersi nel tutto” in cui la realtà individuale – o ego – possa ancora dissolversi nel “tutto” da cui originariamente si è separato».

Questa è la prospettiva non solo della mistica paolina in quel cupio dissolvi et esse cum Cristo, ma anche – e soprattutto – della tradizione orientale che nella tradizione dell’Advaita Vedanta e del Buddhismo ci invita a coltivare stati meditativi attraverso cui poter trascendere l’ego per confluire in uno stato coscienziale percepito come espressione della coscienza cosmica e definito, appunto, “non oggettuale”.

Nella tradizione ebraica questa rottura viene ricondotta ad una “colpa primaria” imputabile alla disubbidienza dei nostri progenitori. Il dolore connesso alla separazione e l’anelito al ricongiungimento parrebbero dare ragione ad Aristofane che, nel Simposio platonico, rimanda al mito della mela dimezzata.

La tradizione cristiana sembra enfatizzare il pathos con singolare forza nella figura del Crocefisso che, dell’amore-agape, rappresenta l’espressione compiuta ed ultima. Non a caso la Via amoris simboleggiata dai numerosi percorsi del “Sacro Monte” (di cui i più famosi sono quello di Varese e di Varallo) riportano di fatto le stazioni della Via crucis, dei misteri dolorosi, appunto, quasi lasciando sullo sfondo quelli gaudiosi e gloriosi. In occasione di una relazione al Congresso dell’Associazione tedesca di Gestalt a Berlino nel 2008, sul tema “Die Dingen der Liebe” (le cose dell’amore) ho cercato di rivisitare in chiave psicologica queste “tappe” del percorso personale sotto il profilo della vita amorosa identificando, tra i misteri “dolorosi”, appunto: il pathos collegato alla rinuncia al tutto per il limite della relazione nei suoi connotati terreni, la ambivalenza tra attrazione e repulsione, la fatica nel discriminare gli ambiti di condivisione da quelli di differenziazione nonché il confrontarsi con la dipendenza e contro dipendenza e quindi con i giochi di potere all’interno della coppia.

Se l’Imitatio Christi, per usare un tema ripreso anche da Hillman, non ci fornisce molti spunti di riflessione, sul tema di eros, nell’avvicinarci al paradigma imitativo di Gesù, possiamo al contrario trovare suggestivi spunti di riflessione nel paradigma della divina Coppia di amanti nella tradizione dei Veda. Shiva e Shakti (nelle diverse reincarnazioni femminili) rappresentano il distillato di una profondissima riflessione sul tema dell’amore sia nelle sue espressioni più erotico-estatiche che dolorose in collegamento al tema dell’abbandono, del lutto e del conflitto. Magistrale, al riguardo, la rivisitazione fattane da Calasso nel suo Ka (Adelphi) nonché di Wendy Doniger in Siva (Adeplhi) che conclude come, «a livello divino, sono le imprese in cui le divinità creatrici e distruttrici si rafforzano vicendevolmente; a livello umano, sono gli episodi in cui l’impulso ascetico e quello erotico arrivano a convivere all’interno di una stessa persona, e ciascuno può svilupparsi fino a esplicare pienamente la propria potenza senza ostacolare l’espressione dell’impulso contrario».

Ma la chiusura va forse riservata ai Megaloi Theoi (grandi dei) detti Cabiri (dalla parola fenicia kabir o potente) venerati nei riti misterici di Samotracia ed ai quali ci introduce Schelling (1815) nel suo Le divinità di Samotracia del 1815. Il primo fra questi è Anxeros che, in lingua fenicia, sta ad indicare «la fame, la povertà ed in seguito il languore, il desiderio». In quanto tale, «il primo di tutti gli esseri (Wesen) che diede cominciamento al tutto», così come Eros, nella concezione orfica ed esiodea è divinità cosmogonica coevo di Kaos e Notte all’origine del tutto.

Lo stesso Schelling, citando Saint-Croix, associa Anxeros a Pothos, definito da Platone nel Cratilo, come il desiderio struggente per qualcosa che non può mai essere raggiunto completamente. Nei confronti di himeros (amore appetitivo) e anteros (amore corrisposto), pothos si pone in un irraggiungibile “oltre”, quello della fantasia, della idealizzazione, della irrealizzabilità.

La conoscenza di Eros-Amore (libido per Freud) resta forse “il” tema fondamentale dell’esistenza, come pure della nostra professione di psicoterapeuti. «Il vero Eros è quello filosofico. Non vi è filosofia senza il dono divino dell’amore, che è lo stimolo dell’ascesa dell’anima». Ci accompagni il monito di Platone nel Fedro a divenire esperti nelle cose d’amore (tà erotikà, per usare il termine platonico) sia nella vita che nel nostro lavoro.

Tratto da: Il Dolore e la Bellezza dalla Psicopatologia all’Estetica del Contatto a cura di G. Francesetti, Franco Angeli ed., 2013

Bibliografia

Abelardo (1994), Storia delle mie disgrazie, Newcompton.
Barthes R., Frammentì di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1977. Bontempelli M., trd Apuleio: Amore e Psiche. Sellerio Editore. 1992. Carotenuto A. (1989), La Chiamata del Daimon, Tascabili Bompiani, Milano.
De Rougemont D. (1977), L'amore e l'Occidente, Rizzoli, Milano.
Flaubert (1984), L'educazione sentimentale, Mondadori, Milano.
Freud S. (1921), Psicologia delle masse e analisi dell'Io in Opere, cit., vol. IX, Bollati Boringhieri. Torino
Fromm E. (1957), L’arte di amare, Mondadori. 1995.
Galimberti U. (1996), Paesaggi dell'anima, Oscar Mondadori. Guggenbuhl-Craig A. (2007), Matrimonio. Vivi o morti, Moretti&Vitali Ed.

Lemoine-Luccioni Eugénie (1998), Travail d'amour, Edition Trames, Nice. Nietzsche F. (1881), Pensieri sui pregiudizi morali in Opere, Adelphi, Milano 1964.
Osho (2005), Con te e senza di te, Oscar Mondatori.

Schelling F.W. (1815), Le divinità di Samotracia, Mimemis. Milano, 2002. Tintorio Gilda (2006), Consigli d’amore, Pillole BUR, Milano.
Tolstoj L.N. (1889), Il Diavolo, Arnoldo Mondadori Editore. Milano. Zerbetto R., (2011), La madre di tutte le dipendenze in Craving a cura di U. Nizzoli, V. Caretti, M. Croce, P. Lorenzi, H. Margaron, R. Zerbetto Quaderni di Personalità/Dipendenze. Mucchi editore Modena.

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Eros e pathos: perché così inscindibili?

Riccardo Zerbetto

Riccardo Zerbetto è psichiatra e direttore del Centro Studi di Terapia della Gestalt (www.psicoterapia.it/cstg). Già presidente della European Association for Psychotherapy (EAP) e della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP.). Co-fondatore di Alea-Associazione per lo studio del gioco d’azzardo e dei comportamenti a rischio. Direttore scientifico di Orthos, associazione per lo studio e il trattamento dei giocatori d’azzardo.

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