Per molto tempo in Italia, nei momenti di recessione, la gente che non trovava lavoro rimediava mettendo in piedi piccoli esercizi commerciali: negozietti alimentari o di abbigliamento, piccole botteghe artigiane o di servizio - come parrucchieri, sarti - imprese che richiedevano un capitale modesto, davano un profitto modesto ma, in compenso, lo davano a tutti. Per cui non aumentava la disoccupazione e il tenore di vita non si abbassava bruscamente.
Non si formavano masse di disoccupati e di poveri.
Alla ripresa, molti di queste piccole imprese chiudevano, ma alcune avevano innovato, introdotto nuovi prodotti e nuovi servizi e si espandevano arricchendo il settore del commercio.
L’ultimo periodo in cui si è visto in Italia un fenomeno simile, è stato nella seconda meta degli anni Settanta. All’inizio di questo decennio ci fu una contrazione dei consumi, agitazioni politiche, la crisi petrolifera, disoccupazione e inflazione. Ma, proprio in questa situazione, si assistette ad un rapido cambiamento dei consumi ed in particolare un radicale rinnovamento dell’abbigliamento.
Non si affermarono solo i grandi stilisti italiani - per cui Milano divenne la capitale del pret à porter mondiale, ma sorsero migliaia di boutique di abbigliamento e di maglieria creative, innovative. Quando ci fu la crisi, molte di queste imprese sopravvissero e fu veramente il trionfo del Made in Italy e del “gusto” italiano.
Nel decennio successivo incominciò la concentrazione della distribuzione attraverso i supermercati e gli ipermercati, che vendevano essenzialmente prodotti alimentari e per la casa e continuò ad esistere spazio per i negozi specializzati e per l’abbigliamento di qualità. In tutto questo periodo i negozi più qualificati restarono nel centro delle città.
Il processo cambia rapidamente nel Duemila, quando si diffondono i centri commerciali, che sono complessi di vendita e di intrattenimento, di spettacolo, di svago che fanno concorrenza alla zona di svago e di divertimento del centro città. In molti casi sono gli stessi negozi del centro a spostarsi nei centri commerciali, spinti tanto dallo spostamento della clientela quanto dagli alti costi urbani.
È il momento dello svuotamento delle aree storiche, ma non ancora della distruzione del negozio e dell’artigianato.
Questo avverrà con il predominio delle vendite online e la formazione di monopoli sovranazionali come quello di Amazon, che hanno progressivamente allargato il loro campo di vendita rendendo obsoleti non solo i negozi tradizionali, ma anche i centri commerciali.
Sia gli uni che gli altri, ormai, servono al consumatore per vedere, toccare e provare il prodotto, che poi compreranno comodamente online facendoselo portare a casa.
Amazon si avvia a vendere di tutto e sta mettendo a punto processi di robotizzazione e di intelligenza artificiale che tendono ad eliminare tutta la mano d’opera di scelta e di imballo. Inoltre, grazie alla raccolta di informazioni personali, potrà fare un servizio di informazione e di servizio vendita personalizzato.
In questa prima fase della mondializzazione l’entrata nel mercato di tanti paesi con tanti varianti di prodotti ha nascosto l’effetto di distruzione della diversità e della creatività in ogni singolo paese. In Italia e già stato distrutto nel campo della moda il Made in Italy, il gusto italiano, perché non ci sono più negozi e creatori indipendenti. Nel campo delle scarpe, per esempio il mercato è diviso fra poche marche internazionali e poi vi sono prodotti nuovi che vengono dai paesi islamici, dall’india, dall’estremo oriente.
L’Italia è sempre stato un Paese ad alta creatività e di gusto elevato. Questo processo ci danneggia profondamente e rischia di isterilire la nostra vita artistica e culturale, di renderla sempre più dipendente da modelli internazionali scelti ed imposti da poche centrali usando algoritmi e interventi di intelligenza artificiale, volti a manipolare i consumatori per asservirli, vendere di più e massimizzare il profitto.