Quanto mai contemporanea è la riflessione sulla guerra in un’epoca in cui mirabilmente, a margine della grande pandemia, i conflitti planetari, sempre meno regionali, tornano alla ribalta in un quadro geopolitico progressivamente articolato e complesso. Nessuno Stato più o meno sovrano sembra avulso, anche indirettamente a causa di alleanze polverose tutte di matrice novecentesca (NATO, etc.), da una qualche rivendicazione territoriale, che trova naturale contraltare nelle cosiddette politiche di pace di superpotenze apparentemente paladine di un ordine mondiale “giusto”, paventandosi un’oggettività di giustizia astratta e teorica, una sorta di maschera che sembra coprire in realtà il volto corrugato dei più biechi interessi di parte.
Non c’è dubbio che la storia insegna, ed è una storia (almeno quella del secolo scorso) documentata grazie alle nuove tecnologie (fotografia, video, etc), e non c’è nemmeno dubbio che chi dovrebbe essere fruitore di tale insegnamento, vale a dire ogni essere umano, non ha alcuna intenzione di imparare, come direbbe Antonio Gramsci.
Quindi la guerra è un male necessario? Il mondo equo e solidale perorato dall’UE da quel lontano 25 marzo 1957 (Trattato di Roma) in quasi 70 anni di azione politica comunitaria dove è finito?
C’è una reale dicotomia tra guerra e guerriero? L’azione di combattere, di scendere in campo personalmente come militare è o meno una scelta responsabile ovvero fonte di responsabilità personali? E’ pensabile un’obiezione di coscienza collettiva laddove ogni essere umano riprende in mano la propria esistenza non delegando la propria dignità e identità a un qualche potere che di volta in volta si avvicenda e ritiene di utilizzarlo come strumento privo di coscienza?
Le questioni sono tante e non è questa la sede per esplorarle tutte.
Certo è che, almeno a parere di chi scrive, qualunque rinnovamento sociale non può prescindere dal rinnovamento della persona che sicuramente è preda dei propri egoismi, ma che ha la possibilità di scegliere, di ravvedersi, di tornare sui suoi passi in un’ottica edificativa laddove il Bene dovrebbe vincere sempre anche facendo tesoro della tristezza e della solitudine, oltre che della sofferenza, conseguenti al Male, all’atto che nega la nostra natura trascendentale (per chi crede) ovvero quelle incontrovertibili categorie aprioristiche tanto care a Kant.
L’opera scultorea dal titolo “Vir temporis acti” (Uomo antico) di Adolfo Wildt ha molto da farci riflettere sul tema.
La prima versione, datata 1911, si presenta come un grande torso di marmo senza braccia, con gambe mozzate e una spada di bronzo dorato conficcata sul basamento a mo' di croce. Viene inviata al collezionista prussiano Franz Rose, e alla sua morte, l'anno successivo, viene donata dal fratello Carl al Museo di Königsberg. Inoltre, Franz Rose possiede un altro esemplare, costituito dal solo busto, che viene donato all'Associazione Artistica.
Entrambe le opere sono andate perdute e oggi ne consociamo le puntuali fattezze grazie alle straordinarie fotografie di Emilio Sommariva.
Dalla versione originale sono tratti altri esemplari dallo stesso Wildt, tra cui quello del 1914, ora al Museo del Novecento di Milano, che però presenta solo la testa. Tuttavia, quando il primo “Vir temporis acti” viene esposto alla Triennale di Milano, l'opera attira varie critiche. Viene addirittura definita immorale perché troppo nuda, e il poeta e critico Nino Salvaneschi confessa di non riuscire a capire le "morbose deformazioni di questo bizzarro artista" che ha messo "al posto dei seni, due specie di bottoni per la luce elettrica". Quando la testa di marmo viene esposta a Roma alla Società degli Amatori e Cultori nel 1915, Wildt viene descritto come "un pazzo che credeva di stupire il mondo con una caricatura goffa e barocca della verità".
D’altro canto l’artista sperimenta notevolmente. Si spinge ai limiti della deformazione, come si può vedere nell'Uomo Antico nel Museo del Novecento: le sopracciglia aggrottate provocano la presenza di due protuberanze sulla fronte, il naso è grande e deformato in punta, la bocca
semiaperta e grossolana rivela l'arcata inferiore dei denti e gli zigomi sono piuttosto pronunciati. Tuttavia, i critici Arturo Lancellotti e Antonio Maraini rimangono sbalorditi dal tormento insito nelle opere dell'artista milanese: «sembra divertirsi a stupire il pubblico con il virtuosismo del suo scalpello che affonda nelle narici, si insinua tra i denti e tra i peli della barba delle sue teste virili, passa nei padiglioni auricolari fino alla trasparenza della cartilagine [...] Attraverso la stilizzazione di Wildt, alcune opere, con la loro patina intensa, lucida e giallastra, assumono un carattere caricaturale; altre hanno qualcosa di tormentoso nella contrazione spasmodica delle orecchie.] Attraverso la stilizzazione di Wildt, alcuni pezzi di scultura, con la loro patina intensa, lucida e giallastra, assumono un carattere caricaturale; altri hanno qualcosa di struggente nella contrazione spasmodica dei muscoli del volto, altri, infine, nella loro rigida staticità offrono il senso di una calma e grave solennità». E ancora: «Si direbbe quasi che nel volto egli ami rendere soprattutto quelle parti che per la loro natura cartilaginea assumono un aspetto tipico. Il marmo sotto le sue mani [...] si trasforma quasi in una materia liscia e compatta. Si potrebbe dire che raggiungere la squisitezza tattile che gli oggetti d'arte a volte hanno in questi è la tendenza inconscia di Wildt».
Ma cosa si trova di fronte l’osservatore dell’opera?
Un soldato virile con il viso reclinato alla sua sinistra. La bocca semiaperta e la corrugazione della fronte esprimono il dolore delle percosse autoinflitte. Gli occhi sono chiusi e le ciglia disegnate graficamente nel marmo. La capigliatura riecheggia quella degli eroi classici.
Il guerriero è intento a percuotersi con lo staffile in segno di sacrificio e redenzione tramite il dolore autoinflitto.
E’ un soldato che si pente delle proprie azioni, che riacquista la sua dignità di essere umano nonché la consapevolezza dell’insano gesto bellico.
Wildt ci fa riflettere molto soprattutto in termini di tornare indietro, ovvero non andare avanti, nel percorso geopolitico contemporaneo che sembra portare inevitabilmente verso un terzo conflitto nucleare mondiale, per ora vissuto solo “a pezzi”, come dice il compianto Papa Francesco.