Oggi è più difficile che in passato classificare le persone in base al loro lavoro perché, come abbiamo visto, lavorano sempre in meno, di meno e in modo più precario. Viene allora spontaneo riflettere su che cosa rappresenti il lavoro sia per le persone sia per la società. Che valore ha per noi lavorare? È un valore universale e intrinseco alla natura umana o è un costrutto culturale mutato nel corso della storia e che può mutare ancora in futuro?
Per rispondere, partiamo dall’antichità classica.
Sia in Grecia sia a Roma ci sono due modi di definire il lavoro: ponos per i Greci e labor per i latini rappresentano il lavoro faticoso, obbligato, di solito associato a una condizione servile o nei campi, anche se Esiodo e Virgilio apprezzano l’utilità di quest’ultimo in quanto mezzo per rafforzare corpo e anima grazie al contatto con la natura. Invece, ergon e negotium indicano le attività che portano a un risultato percepito in modo positivo dal lavoratore come la creazione di un’opera o di qualcosa di utilità pubblica.
È curioso notare che negotium è la negazione di otium. Quindi, il lavoro è ciò che sottrae tempo all’ozio: l’otium è la parte principale, più nobile e sacra della vita umana, è il tempo in cui coltivare il pensiero, esercitare la virtù, da trascorrere in convivialità o in contemplazione della natura, è la base della politica e della filosofia.
In Grecia, l’ozio è scholé (σχολή) da cui deriva “scuola”. Infatti, l’attività scolastica non è percepita come obbligata e assimilabile al lavoro, ma considerata un privilegio per i pochi che possono sottrarsi alle incombenze materiali quotidiane.
Ma torniamo al concetto di lavoro. Per l’antichità classica, come per quella giudaico-cristiana, il lavoro nasce come una punizione divina: di Zeus dopo il furto del fuoco ad opera di Prometeo o del Dio della Bibbia quando scaccia Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. Famosa l’invettiva: «Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. […] Con il sudore del tuo volto mangerai il pane».
In entrambi i casi, si è passati da una vita felice alla preoccupazione di procurarsi il cibo. Del resto, il modello ideale comune è sempre stato quello di un luogo dove il lavoro fosse bandito: luogo che per gli antichi era nel passato, nell’età dell’oro, per i cristiani era nel Paradiso futuro, e per molti altri era in luoghi presenti lontani come nei vari Paesi di cuccagna o nelle città utopiche.
Nel VI secolo d.C., all’idea di lavoro come labor – fatica – e condanna divina, si associa la nuova visione di San Benedetto che, partendo dal motto: Ora et labora, “prega e lavora”, dà la stessa dignità alla contemplazione e all’attività sia manuale sia intellettuale che i monaci svolgono in modo corale e cooperativo e finalizzano al bene comune. In Europa, si crea una rete di monasteri dove i diversi ordini monacali si specializzano in una propria attività produttiva diffondendo benessere e conoscenza al di fuori di essi: dalle innovazioni agricole dei cistercensi, alle tecniche di cardatura e tessitura degli umiliati, all’arte medica e alla coltivazione di erbe medicinali dei benedettini. Gli amanuensi poi provvedono a conservare, copiare e diffondere i testi con i vecchi e nuovi saperi.
È ancora un monaco agostiniano, Martin Lutero, a rivalutare ulteriormente il lavoro che, con la Riforma Protestante, non è più solo un mezzo ascetico riservato a pochi, o l’attività obbligata per sopravvivere, ma diventa il compito che Dio ha assegnato agli uomini, la loro occasione per realizzarsi, è “Beruf”, cioè una vocazione.
Per Calvino, è anche il segno della propria salvezza eterna e la dimostrazione, attraverso il successo terreno, di essere stati scelti da Dio, di far parte degli eletti.
Il secolo successivo, Richard Baxter, un puritano inglese, aggiunge che il lavoro non deve essere finalizzato solo al proprio vantaggio o a onorare Dio, ma anche al bene della collettività.
Insieme a questi principi etici, i protestanti condannano il lusso, l’ozio, il divertimento, i piaceri della carne e ogni spesa superflua di ciò che si è guadagnato, considerandoli una tentazione del demonio per impedire la salvezza dell’anima. Si diffonde il detto: “L’ozio è il padre dei vizi”.
Siamo all’opposto dell’ozio degli antichi. Di conseguenza, il buon cristiano deve lavorare molto, ma non deve godere dei guadagni ottenuti che vanno reinvestiti per ottenerne di nuovi. Questo favorisce, pur inizialmente in modo involontario, lo sviluppo del capitalismo. Così, mentre per i cattolici il lavoro resta “labor”, fatica, e il guadagno “turpitudo”, per i protestanti, l’aspirazione al guadagno può porsi in termini etici. Nel tempo, il lavoro si trasforma da punizione a una nuova opportunità per affermarsi. Tramite il lavoro la persona acquisisce status, posizione sociale, riconoscimento.
Benjamin Franklin è stato il promotore dell’etica capitalistica. Nei suoi famosi Aforismi ribadisce che “il tempo è denaro” e che l’onestà è utile, poiché procura credito; lo stesso vale per la puntualità, la diligenza, la moderazione, che per questo sono virtù. E il guadagno che si trae dal lavoro è legittimo ed eticamente encomiabile. Di conseguenza, il lavoro da funzionale alla sopravvivenza, diventa lo scopo della vita.
Con il tempo, però, anche all’interno del capitalismo il ruolo del lavoro è cambiato. All’inizio del XX secolo, Max Weber si rende conto che il lavoro come dovere di fronte a Dio e l’aura di sacralità del profitto si sono perduti in un processo di razionalizzazione e burocratizzazione successive che hanno finito per rinchiudere l’uomo in una sorta di gabbia d’acciaio senza anima. E nota che negli Stati Uniti, per esempio, dove era stata più forte la spinta propulsiva del capitalismo, il lavoro si è spogliato del suo senso etico-religioso, e tende a divenire pura competizione spesso simile a quella sportiva. Si chiede allora se in futuro rinasceranno gli antichi pensieri e ideali, o se invece ci sarà una sorta di “pietrificazione meccanizzata” dove diventeremo “specialisti senza spirito, edonisti senza cuore”.
Oggi, dopo un secolo dalla sua domanda, ci stiamo dibattendo ancora fra le due direzioni opposte. Inoltre, nonostante la secolarizzazione del mondo occidentale, possiamo ancora riscontrare le differenze fra i Paesi protestanti e quelli cattolici nel concetto di lavoro e di guadagno.
L’atteggiamento diverso che si può avere svolgendo la stessa attività ha come conseguenza il fatto di ottenerne gratificazione oppure sofferenza. Prospettarsi il risultato del lavoro al di là del puro guadagno o dell’obbligo di svolgerlo, comprendendone il valore sociale, per esempio, può essere un motivo di soddisfazione. Come racconta Charles Peguy: «Due operai lavoravano alla costruzione della Cattedrale. Spingevano ognuno la propria carriola di mattoni. Un passante chiede al primo operaio: ‘che stai facendo?’ Risponde: ‘Trasporto mattoni’. Chiede al secondo: ‘Che stai facendo?’. Risponde: ‘Sto costruendo la Cattedrale e ciò mi rende felice’».