Secondo l'elaborazione del mito fatta da Euripide, Fedra, sorella di Arianna, sposa Teseo che l'aveva portata con sé nella fuga da Creta. In seguito si innamora follemente del figliastro Ippolito, giovane di straordinaria bellezza, religiosità e castità che è consacrato ad Artemide e la respinge. Fedra allora si uccide accusando Ippolito di aver tentato di sedurla, provocando così anche la morte di Ippolito. L’amore di Fedra è ispirato da Afrodite che vuol punire Ippolito per il suo rifiuto di amare. La tragedia è giocata proprio sulla contrapposizione tra due divinità in competizione tra di loro e sul tema,per quanto riguarda gli umani, della necessità di amare e dell'amore respinto, ma anche quello della vendetta in forma di calunnia.
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Il dramma euripideo “Ippolito” rappresenta un vero trattato in versi sul potere di Afrodite e su ciò che la dea rappresenta nelle nostre vicende in tema di relazioni amorose.
Sin dal proemio del dramma suona tremendo l’avvertimento ai mortali lanciato da Afrodite:
“Potente e gloriosa tra i mortali e nel cielo, il mio nome è Cipride. Io rendo onore a quanti vivono e vedono la luce del sole e venerano il mio potere, ma abbatto chi è tracotante nei miei riguardi (…) Il figlio di Teseo, Ippolito, disdegna i letti, rifiuta le nozze (…) Ma mi vendicherò oggi stesso delle sue offese. Fedra, la nobile sposa di suo padre, lo vide, e per mia volontà, fu presa subito nel cuore da un amore tremendo per lui (…) Fedra piange, sconvolta dagli aculei di Eros, e si strugge di infelicità, in silenzio, e nessuno dei suoi riesce a capire quale sia il morbo che la affligge” (trad. Tonelli).
Per quanto le sue grazie appaiano a volte marginali alla “legge di necessità” che governa le sorti e la sopravvivenza dei viventi, non è forse Eros che, nella Teogonia di Esiodo, ripresa dalla tradizione poetico-filosofica greca
“scioglie le membra e doma nel petto di tutti gli dei e di tutti gli uomini il cuore e il saggio volere”?
Neppure gli dèi, che nel panteon greco sono dotati di “genere”, sfuggono al potere di questo dio primigenio che governa la forza di attrazione, ed è capace di sconvolgere ogni ordine sia nelle vite dei singoli che nel destino dei popoli.
Un tema che è stato affrontato da poeti, filosofi e “ministri delle cose divine” dacchè l’essere umano si è posto l’interrogativo sul significato dell’attrazione amorosa sia nei sui aspetti estatici che tragici, e che, in tempi recenti, viene oggi spesso rivisitato come love addiction … come forma più conosciuta di quel “mal d’amore di cui, notoriamente, non è facile guarire proprio perché chi ne soffre non ha grande motivazione a negare la causa della sua sofferenza.
Nello sviluppo del dramma è possibile scorgere, sotto forma narrativa, il nucleo essenziale nel quale si configura il tema, coerentemente alla sintesi che ne fa James Hillman, che definisce “la mitologia come psicologia del mondo antico, come la psicologia è la mitologia di quello moderno”.
Le due figure menzionate già nel citato proemio caratterizzano infatti i due opposti che troveranno nella logica narrativa il loro esito tragico: Ippolito, per il suo ostinato rifiuto della dea dell’amore a favore di Artemide, vergine dea della caccia e, più in generale, tutrice della natura selvaggia e incontaminata vissuta, conseguentemente, come rivale:
“fra gli Dei tutti quanti, onora Artèmide, sorella di Apollo e figlia di Zeus, insieme sempre per la verde selva con la vergine sta, strugge le fiere, con pronte cagne, dalla terra, e altero va della compagnia piú che mortale. Né di questo io mi cruccio: a me che fa? Ma delle offese che lanciava Ippòlito contro me stessa, oggi trarrò vendetta”.
E la vendetta si abbatterà drammaticamente sulla matrigna, Fedra, seconda moglie di Teseo (che dalla prima, Antiope regina delle amazzoni, ebbe Ippolito) che viene trafitta dagli strali di Eros sino ad ammalarsi di un male oscuro, poi rivelatosi come indomabile passione amorosa: “Fedra, del padre suo l'insigne sposa, lo vide, e invasa da cocente amore, per mio consiglio, n'ebbe il cuore (…) E qui geme la misera, e, colpita dalle frecce d'amor, muta si strugge e niun dei servi il morbo suo conosce”. Stupisce che, anche in una epoca che ancora non conosceva lo spiritualismo ascetico (se non nella tradizione orfico-pitagorica) Ippolito sembri quasi ostentare ed andare orgoglioso nel proclamare “La venero da lungi, io: ché son casto. Uomini o Dei, chi l'uno ama, chi l'altro. Non amo Dei che riti notturni abbiano” E invano un servitore lo ammonisce sul fatto che “Pur, venerata è fra i mortali e celebre. Rendere ai Numi onor conviene, o figlio” rassegnandosi poi alla sua ostinazione e invocando (invano) benevolenza alla Dea non onorata: “E noi, poiché dei giovani l'esempio non conviene seguir (…) I Numi devono dei mortali esser piú saggi”.
Nella tragica lacerazione che sta incombendo sui nostri “eroi tragici”, collegato allo sdegnato rifiuto di Ippolito di concedersi alla profferta amorosa di Fedra, si leva, seppure invano, il patetico tentativo della Nutrice di Fedra che, costernata per la sua sofferenza, invoca un improbabile compromesso del conflitto “ Gli affetti (…) del cuore, tali esser dovrebbero che ognor si potessero rallentare, serrare, disciogliere. Nella vita, lo zelo eccessivo nuoce, dicono, piú che non giovi, è nemico a salute. E cosí, non lodo l'eccesso e i saggi con me converranno”. Un accorato richiamo questo a quel “meden agan” (nulla di troppo) che rappresenta l’essenza dell’etica greca ma che, come ben sappiamo, proprio nelle “cose di amore” è spesso così difficile rispettare.
Nel caso di Fedra, tema ripreso anche da altri autori tra cui Seneca e Racine per citare i più noti, si ripropone il dramma del disamore (dell’essere feriti, con linguaggio mitico-metaforico, dalle frecce di piombo e non di oro che fanno innamorare): della condizione di drammatica asimmetria collegata all’amare non corrisposto. Un dolore che unisce alla mancanza dell’amato anche il suo rifiuto che, in questo caso, suona anche sprezzante e risentito. A queste duplice ferita non è raro riscontrare forme di vendetta che sfociano nella follia del crimine agito sull’altro o su se stessi, come i drammatici fatti di cronaca ci ricordano così frequentemente. Nel nostro caso la vendetta al rifiuto e all’umiliazione consisterà nella mendace accusa di essere stata essa stessa vittima di una aggressione amorosa da parte di Ippolito portando come prova al padre Teseo il brandello di un manto che gli aveva strappato. Un tema che ritroviamo, per inciso, anche nel racconto biblico in cui la moglie di Putifarre, consigliere del faraone, accusa Giuseppe che aveva rifiutato le sue profferte.
Forme di quella “follia amorosa” che può portarci a perdere la ragione nella duplice espressione dell’estasi come anche del crimine … Ma come potrebbe essere diversamente in una concezione che si riassume nell’inno ad Eros a fondamento della Teogonia di Esiodo
“In primissimo luogo sorse il Caos, poi Gaia dall’ampio seno, di tutti dimora sicura sempre, ed Eros che, bellissimo fra gli dei immortali, sciogliendo le membra doma nel petto di tutti gli dei e di tutti gli uomini il cuore e il saggio volere” se neppure gli dei possono sfuggire al suo dominio? Gli fanno eco i lirici greci come Saffo “Scuote l’anima mia, Eros, come vento sul monte che irrompe entro le querce e scioglie le membra e agita, dolce, amare, indomabile belva”, come ancora Anacreonte “Come tagliatore d’alberi mi colpì con la sua grande scure, Eros, e mi riversò alla deriva d’un torrente invernale”
D’altra parte, come non onorare una divinità dalla quale dipende la nostra stessa esistenza come inconfutabilmente emerge dalla testimonianza della saggia nutrice:
“A Cípride facil non è fare contrasto, quando impetuosa piomba. Ella soave a chi cede s'appressa, e invece, quando trova un superbo, un'anima orgogliosa, che credi tu?, lo afferra e ne fa strazio. E per l'aure si libra, erra del mare tra i flutti, Cipri, e da lei tutto ha vita. Essa è colei che semina, che infonde d'amor la brama, e tutti abbiamo origine da lei, quanti viviam sopra la terra”. Destino al quale, come emerge in questa concezione anche teologica, non siamo condannati solo noi mortali ma gli stessi dei se “E tuttavia, nel cielo dimorano essi, e gli altri Dei non fuggono, e ad esser vinti, credo, si rassegnano dal loro fato: e tu non vorrai cedere? se tu non vuoi piegarti a queste leggi. E a troppa perfezion la propria vita volgere l'uomo non deve: Fatti cuore, e ama. Un Dio lo volle. E poi che sei malata, d'alleggerire il morbo tuo procura”.
Una conclusione che porta un tono consolatorio, seppure nell’esito tragico della morte di entrambi i nostri eroi sui quali, anche a distanza di 2.500 anni, noi traiamo ancora motivo di commossa riflessione.