Nel film di Nanni Moretti “La stanza del figlio” è rappresentata una famiglia ideale: Giovanni, psicanalista in carriera, Paola, editrice, Andrea e Irene i due figli, maschio e femmina, come in una famiglia del Mulino Bianco. Giovanni e Paola hanno ancora una buona vita sessuale e sono innamorati. Sono anche dei genitori presenti: aiutano i figli nei compiti, fanno colazione assieme e in macchina cantano tutti assieme come studenti in gita. È una famiglia borghese, come tante, che risente del periodo adolescenziale dei figli e delle aspettative dei genitori nei loro confronti, ma si può dire che funzioni bene.
Poi, all’improvviso, l’evento che crea il discrimine, il confine tra il prima e il dopo, tra la serenità e la sofferenza. Andrea muore durante un’immersione subacquea, proprio il giorno in cui doveva passare invece la giornata con il padre a fare jogging, appuntamento disdetto da Giovanni per un’urgenza di lavoro.
Il dolore modifica e scardina l’ingranaggio familiare. Ognuno si richiude privatamente nel proprio dolore, quasi che i legami si sfilaccino fino ad essere solo fili di una ragnatela fragile. Mentre Irene è chiamata dalla giovinezza a superare più velocemente il momento tragico, e anche alla condizione di “sopravvissuto”, Giovanni smette di fare lo psicanalista e Paola si chiude nel suo dolore. Diventeranno monadi senza comunicazione, dormendo in stanze separate, urlando il dolore non in un coro ma in una disperata solitudine.
Non sono rare queste situazioni quando una famiglia viene sconvolta da un evento luttuoso, specialmente se improvviso e violento. La ricerca di un colpevole, per placare la rabbia impotente, può portare all’allontanamento di un familiare o al deflagrare di antichi conflitti che probabilmente in assenza del lutto non sarebbero venuti alla luce.
Seppur drammatico, forse è il vero momento della verità di una famiglia e di una coppia. Ne abbiamo avuto esempi recenti anche nel mondo dello spettacolo. Marito e moglie spesso si dividono. Altrettanto spesso, se sono in età riproduttiva, hanno altri figli con altri partner.
Altri invece ce la fanno e la famiglia va avanti. Un tempo sopravvivere alla morte di uno o più figli era una condizione quasi naturale. Nelle famiglie numerose, e con meno cure mediche rispetto a oggi, la maggior parte delle famiglie era segnata dalle morti di figli giovani o bambini. Si pensi al periodo della “Spagnola” attorno al 1918, oppure alle guerre che portavano via ragazzi nel fiore degli anni. La morte tuttavia era vissuta in modo più naturale, seppur doloroso, rispetto ad oggi, e il numero dei figli rimasti e il duro lavoro quotidiano obbligava le persone a proseguire la vita con la caparbietà della sopravvivenza del proprio nucleo, in un mondo più ostico e per certi versi più facile da capire.
Oggi i figli sono pochi e quindi molto più preziosi, più complesso è anche il meccanismo che tiene unite le coppie e le famiglie che con l’arma del divorzio possono sciogliersi in ogni momento. La libertà che unisce i sentimenti è anche quella che li tiene sospesi e li rende più delicati, più esposti alle intemperie della vita.
Chi ce la fa rinnova con forza inaudita il proprio patto d’amore. Ritrova dalle ceneri del dolore l’innamoramento che unisce i coniugi, l’affetto che unisce i genitori ai figli e viceversa. Giovanni e Paola, assieme a Irene, conoscono una ragazza con cui Andrea aveva avuto una relazione estiva e grazie a lei si appropriano di una parte del figlio e fratello che non conoscevano, si discostano dal tabù di non parlane più, elaborano insieme il lutto. Il grande amore può salvare la loro famiglia E ricominciano a ricostruire.