Paesaggio di un passeggiatore

18 Gennaio 2025



Cammino, quindi penso. Il passo spedito e mai equivoco suona un ritmo marziale falciando le vie. Le principali offrono sampietrini e un po’ di lastricato; per le secondarie l’ignominia del cemento. Il piede ormai abituato chiede il meglio: sono un buongustaio dei pavé.

Le auto parcheggiate dividono viale Roma; alla prima traversa pedonale è tempo di scegliere quale lato dominerà due minuti di percorso. Di là i negozi di moda, la gelateria - unico ristoro dolce che frequentavo da piccolo - il gioielliere dove mando a riparare gli orologi; qui le botteghe con le vetrine in legno, un po’ di calore cromatico, l’enoteca, il cortile di un’osteria, i vecchi, polverosi casalinghi. Si arriva a Piazza Trento, un crocevia dalle molte soluzioni. L’estro le alterna e ora prende il lato destro che profuma di circolarità e ripensamenti, ora procede dritto come un dardo di balestra. Nulla da vedere qui, solo asfalto e muretti di abitazioni fino alla cascata. Un bar pessimo nasconde un croscio d’acqua, che a pena rinfranca il rivo oltre la siepe. Si svolta e si va per case; ci si addentra attraverso una salita dalle carreggiate ristrette: pericolosa per le vetture e i pedoni. Gli edifici peggiorano, s’inselvatichiscono, finché compaiono i casolari di legno rustici e s’indietreggia.

Si recupera il sentiero tornando a viale Roma, o la si circuisce con la parallela lunga e senza negozi. Avanti c’è la Umberto I, che carezza la grandeur paesana. I cento forse duecento metri più graziosi: alcuni edifici sono dipinti e tra una facciata e l’altra sboccia il teatro e una fontana in marmo travertino. La sequenza si interrompe con il parco comunale, infido e maltenuto, confinante con la tenuta d’Attimis e la scuderia. Davanti, un panificio apre una biforcazione, solo apparente poiché le due direzioni sono congiunte da una miriade di sentieri che intermediano. La parte alta (quaranta metri di dislivello) ospita le poste, un supermercato e condomini orrendi degli anni 70’; pazientando compare qualche villa e poi dei prati. L’altra metà raggiunge la frazione minore, incontrando la macelleria e l’alimentari. L’urbe arriva a una rotonda minuta, in pendenza, con un palo al centro che risalta contro il fronte d’un ristorante; di lì in poi non è più borgo, si trasforma in insieme amenissimo di case, con recinzioni in ferro lavorato e giardini curati. In primavera mi fermo a guardare qualche pianta.

Si torna sempre alla piazza. Abito a cinquanta metri dalla fontana principale. Unica, solida, a suo modo significativa. Quasi mai in funzione, perché il suo compito è segnalare la piazza; versare acqua è accessorio. Un rialzo circolare regge quattro scalinate alternate a vasche con protome leonina, alla cui sommità si profila il getto in pietra a ombrello riverso. Decentrata rispetto al lume degli edifici, domina un rombo partito in ciottoli, sampietrini e lastricato. La grammatica dei materiali definisce gli spazi. Bande di selce bianca percorrono di traverso l’area tra via Umberto I e il municipio. La loggia, su un lato, è abbandonata agli uccelli nidificatori. Sopra un edificio, vicino a una rientranza che i vigili urbani hanno trasformato in ammendificio, fa mostra un affresco. Un angolo porta a via Umberto, uno a viale Roma, uno alla galleria che mena alla scuola, all’hotel e al campo da calcio; il quarto conduce alla pieve romanica. Antica, con un rosone di belle dimensioni e qualche dipinto.

Sono cresciuto in questa città di campagna - Maniago, dice il cartello - circondata da bassi monti e da due fiumi, che scorrendo sotto i propri alvei mostrano un letto di nude rocce bianche come torsi di ninfe. Comune isolato di una provincia marginale in una regione periferica. Senza lode e senza infamia. I paesani, piccoli imprenditori, custodiscono con rusticana gelosia una tradizione coltellinaia, che martellano a forza nella mente degli studenti, fino a quando credono di essere nati tra i fabbri di Vulcano. Un secolo e mezzo di officine, poco quotate per finezza, molto per efficienza, aleggia qua e là nel mormorio di un borgo che vivacchia tra bar - in centro se ne contano 18 - e qualche sagra. Dietro le case moderne siedono i ruderi del castello dei conti eponimi, adombrati da una ciclopica bicicletta rosa in metallo; si consegnano con dignità alle cure dei forestali che falciano le edere.

Bruxelles o l’inorganico attuale

A Bruxelles le vie odorano di burro, nebbia e uovo. Le pasticcerie francesi vendono croissant senza farcitura e tra le birrerie spuntano non rari chioschi di patatine fritte e guarniti gaufre. Una strana varietà di negozi si propone vitale ai passanti (cappelli, cartoleria, mobili), in direzione opposta al livellante contesto italiano. Le praline e le tavolette qui sono un’eccellenza, ma chiedere al banco una cioccolata calda comporta l’arrivo di un bicchierone di latte che sembra Nesquik.

Siamo a Bruxelles, città antica la cui fioritura non si deve che all’ultimo secolo e mezzo, come rispecchiato dalla congerie edilizia confusa e imitativa. Complessi nobili di palazzi d’alta linea posano assediati da una legione di casine alte e strette, affettate e smaganti come lucerne nella nebbia. In questi borghi la classicità è un’allure, un profumo di bottega comprato a caro prezzo per il nome in etichetta, poi assaporato e dimenticato, lasciato esalare sui davanzali. Ogni statua pareva morire.

Le case non hanno uno stile. Sono degli assoluti. Infilati uno dopo l’altro come fette di pane in una pietanza elaborata. È usuale che un edificio non somigli a quello che lo avanza, e il seguente al successivo, in una serie circolare di esperimenti senza principio o coda. Capita a volte che due pareti attigue non corrispondano in altezza, lasciando esposta una porzione di muro completamente nuda. Chi sa di chi è lo screzio maggiore: della piccola a cui sovrastano le sconcezze della grande o della grande a cui la piccola scopre la tozza muratura?

Qui l’archetipo del rettangolo informa le superfici e le modella alla sua musica. I semicerchi delle volte, le cimase orlate, le capricciose periferie di una casa d’angolo restano esuberanze, che il massiccio cornicione richiama all’ordine. Quando una rientranza panciuta o una mezzaluna fanno capolino tra le linee nettissime della parete, il gregge degli spigoli alza la voce. Tutto si attenua, si mitiga e comincia a piovere - tempo ladro!

L’elemento che esteticamente regge queste abitazioni è la finestra; il linguaggio dell’architettura parla il dialetto del vetro e del mattone. Le case esistono per la facciata, la facciata per le finestre. Sempre in numero pari, simmetriche, come le tavole che si danno ai bambini quando imparano le tabelline. Senza dichiarazione di intenti che non sia il transitorio appagamento di un’accoglienza borghese, i palazzi confidano ai passati l’imbarazzo per la loro inappellabile simmetria.

È l’inorganico attuale, un gioco di trasgressione reattiva che ho incontrato in tutta Bruxelles. La città si anima di uno splendore immediato e intenso, che ammalia e s’assopisce e invecchia prima che sia diventato maturo. Come il soliloquio di uno sbronzo.

Identità diverse convivono in uno spazio relativamente stretto. L’etnia fiamminga odia la francese, la francese la fiamminga e i tedeschi restano in disparte, in una regione che è poco più che la Valle d’Aosta. Tutto è scritto in più lingue: a volte francese e fiamminga, a volte tedesca e francese, a volte fiamminga e inglese. La città è divisa in municipalità, tra le quali cambiano le leggi e gli orari di funzione, cosa che i bruxellesi odiano, ma a cui non sanno rinunciare.

La corrente tedesca domina la verticalità; la francese regna sull’orizzontale. Latamente, il belga è rustico, ribaldo e assolato; assialmente è individualista, disciplinato e operoso. In tutto ciò che fa resiste una sfumatura fiamminga, che trasfigura il colore dell’azione come le note di basso continuo su una melodia secentesca. Per quanto possa apparire controintuitivo e all’apparenza arbitrario assegnare una direzione alle partizioni culturali, non ho dubbi: ho visto le strade parlare francese e i tetti rispondere tedesco; il fiammingo vociava qua e là, remoto e presente, fischiante.

Il Belgio, terra di confine, striscia mediana tra Francia e Germania. Legame, non luogo. Qui tutto sembra trasportato a valle da un fiume storico impetuoso, che alla foce si rivolta, si contorce, si sofferma, diventa incognitamente melma stagnante in un chissà dove al di sotto del mare. Dove non è la mia casa.

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Ivan Rizzi

Presidente e docente dell’Istituto di Alti Studi Strategici e Politici (IASSP). Saggista. Dopo gli studi al Politecnico di Milano è assistente, relatore in corsi e seminari di filosofia morale. Direttore e editore di periodici. Presidente del Centro Studi e della Fondazione Banca Europa, ruolo che ricopre fino al 2010. Curatore della collana “Quaderni di etica”. Ha pubblicato: Cantico, La Bellezza, La Domanda impossibile, Ritornare alla Comunità…

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