Il Chicago Tribune, quotidiano della città, ha organizzato a Oak Park, luogo di nascita dello scrittore, un ricordo per la ricorrenza del Premio Nobel vinto da Ernest Hemingway nel 1954. Per la prima volta il Premio citava non solo l’autore ma il titolo premiato, Il vecchio e il mare.
Trattasi di un romanzo breve del 1952, premio Pulitzer di quell’anno. Hemingway lo scrisse di getto. Storia semplice, in apparenza. Santiago, un vecchio pescatore di Cuba, dopo aver lottato per ore, riesce a catturare un enorme pescespada. Gli squali però glielo divorano prima che riesca a portarlo in porto. Ne rimane solo uno scheletro. Sì, “in apparenza”, perché forse nessun’altra opera di Hemingway contiene tanti simboli e tante indicazioni. Una citazione va al tragico capitano Achab di Moby Dick, che combatte contro un altro gigante marino. Melville era sempre stato un modello di Hemingway. Dunque la lotta contro la natura, un karma hemingwayano. E lo scrittore si rendeva conto che ormai la sua lotta la stava perdendo. Santiago era il modello della sconfitta e del congedo finale. Il Comitato di Stoccolma assunse tutto questo e, assegnando il Nobel del 1954, nella motivazione, per la prima volta citò un’opera precisa: “Per la sua maestria nell’arte narrativa, recentemente dimostrata con Il vecchio e il mare e per l’influenza che ha esercitato sullo stile contemporaneo.”
Hemingway era malato, senza le forze per raggiungere Stoccolma. Il premio fu ritirato dall’ambasciatore John Cabot. Così scrisse una lettera.
“Non possedendo le doti per un discorso ed essendo privo di qualsiasi qualità oratoria e tecnica retorica, desidero ringraziare gli amministratori della generosità di Alfred Nobel per questo Premio. Nessuno scrittore può accettarlo, se non con umiltà.
… La vita dello scrittore è, nel migliore di casi, una vita solitaria. Le organizzazioni di scrittori alleviano la sua solitudine, ma dubito che riescano a migliorarne la scrittura. Più diventa conosciuto al pubblico, più perde la sua solitudine, e così, spesso, il suo lavoro ne risente, deteriorandosi. Lui lavora da solo, e se è uno scrittore abbastanza bravo deve essere in grado di affrontare l’eternità, o la sua mancanza, ogni giorno.
Per un vero scrittore ogni libro dovrebbe rappresentare un nuovo inizio. Deve cercare di realizzare qualcosa che non sia già stato fatto, o che gli altri hanno fallito nel tentativo di realizzare. E prima o poi, con grande fortuna, riuscirà nel suo intento. Ed è proprio perché abbiamo avuto scrittori così grandi nel passato che uno scrittore deve sforzarsi di andare oltre, dove nessuno può aiutarlo.
Ma per essere uno scrittore, ho “parlato” fin troppo. Uno scrittore deve scrivere quel che ha da dire, non deve parlarne. Ancora grazie.”
Negli anni, Ernest diceva: “Me lo hanno dato troppo tardi”.
Nel 1958 la Warner acquisì i diritti del romanzo e diede la regia a John Sturges, ottimo autore (I magnifici sette, La grande fuga) che adottò un registro semplicissimo, diresse le sequenze rispettando il testo integrale, letto, nell’edizione italiana da Gino Cervi. Era un modo, anomalo, ma dovuto, da parte del cinema, di rispettare la scrittura. E che scrittura.
Ecco l’incipit.
“Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio ormai era decisamente e definitivamente salao, che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un'altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all'albero. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand'era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne.”