Sesso, genere e gender. Quale la differenza?

22 Marzo 2018



'}}
'}}

Oggi si parla sempre più spesso di “genere” (o di “gender”, il suo corrispondente inglese) un termine che non compariva nella lingua italiana fino a pochi decenni fa se non con una accezione grammaticale. Perché ultimamente si utilizza così spesso? Che cosa significa? Quale è la differenza fra questo e “sesso”?

Se ripercorriamo la storia dell’essere umano, la tradizione biblica divide l’umanità in uomini e donne. Dio ha creato Adamo e poi da lui Eva. E questa divisione è rimasta indiscussa a lungo. Era basata sulla differenza biologica: l’anatomia e le funzioni del corpo maschile sono diverse da quello femminile.

A questa differenza si facevano corrispondere specifici ruoli sociali, quelli che oggi chiamiamo “differenze di genere”. Infatti, visto che erano le donne ad affrontare gravidanze, allattamento e a diventare biologicamente madri, a loro era affidata la cura dei figli e della casa, e, legati a questa, l’allevamento degli animali domestici e l’agricoltura, mentre gli uomini, che potevano più facilmente allontanarsi dalla famiglia, andavano a caccia o viaggiavano per commerciare.

Per molto tempo, quindi, si è mantenuta una rigida divisione dei sessi –maschi o femmine – e una altrettanto rigida divisione dei ruoli nella vita quotidiana. Le eccezioni c’erano, ma erano nascoste, disapprovate socialmente o condannate in quanto rivoluzionarie e pericolose, come le idee femministe.

Negli Anni’60 del ‘900, invece, si sono cominciati a mettere in discussione i tanti aspetti della cultura dominante e ciò che si definiva “normale”, con questi anche la divisione tradizionale fra uomini e donne sia dal punto di vista biologico, sia sociale. È proprio all’interno di questa discussione che si è diffusa la distinzione fra “sesso” e “genere” o “gender” e si è iniziato a non dare per scontato che alle differenze sessuali dovessero corrispondere necessariamente delle differenze sociali, viste ora come discriminazioni.

Medici e biologi si sono occupati di rivedere i criteri tradizionali di divisione sessuale e alcuni di loro hanno proposto di sostituire la rigida separazione in due sessi con una in cinque o in undici comprensiva anche degli stati intermedi. Un continuum che avrebbe a un estremo la donna che ha tutte le caratteristiche anatomiche, fisiologiche e psicologiche attribuite alla femminilità e all’altro, l’uomo con le caratteristiche opposte, completamente maschio.

Mentre la Chiesa non accetta questa discussione e ribadisce via via che Dio ha creato l’uomo e la donna come due esseri distinti, il diritto a non collocarsi all’interno di un sistema binario rigido è già peraltro riconosciuto in vari stati europei dove all’anagrafe si può rifiutare di dichiararsi appartenente a uno dei due sessi indicati comunemente sui documenti. Altri propongono di sostituire l’indicazione “sesso” con quella di “genere”, come di appartenenza percepita dal soggetto più che dettata dai suoi caratteri anatomici o biologici.

Inoltre, oggi, nei casi estremi in cui le persone non si sentono a proprio agio con il loro corpo, le differenze anatomiche fra i due sessi si possono risolvere con la chirurgia e le cure ormonali che permettono di cambiare il sesso e adattarlo alla posizione sociale e ai ruoli a cui ci si sente meglio di aderire. Per molti secoli si è cercato di far piegare la mente al corpo, ora si ritiene più facile, nonostante un iter lungo, complesso e doloroso, adattare il corpo alla mente.

Viene quindi naturale, una volta spezzata la suddivisione netta e indiscutibile dell’umanità in due parti, volgere l’attenzione piuttosto sull’aspetto sociale delle suddivisioni esistenti e di riprendere le istanze femministe che sono passate dalla richiesta di parità fra i sessi a quella di riconoscimento dell’”identità di genere” intesa non come “qualcosa che si è”, ma come “qualcosa che si fa”. Sono “atti di genere” per esempio, il modo di vestire, di comportarsi, di parlare. E sono questi che a loro volta determinano il modo in cui percepiamo il nostro sesso biologico.

Ma, aldilà di queste teorie avanzate che vengono condivise dai cosiddetti gruppi LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender), l’uso del termine “genere” pervade la vita quotidiana, ogni volta che si discutono per esempio i rapporti di coppia, famigliari, lavorativi e i compiti, i diritti e i doveri di uomini e donne nel tentativo di vederli sempre meno ancorati all’appartenenza sessuale dei soggetti.

Condividi questo articolo

'}}

Rosantonietta Scramaglia

Laureata in Architettura e in Lingue e Letterature Straniere, ha conseguito il Dottorato in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Ha compiuto studi e svolto ricerche in Italia e in vari Paesi. Attualmente è Professore Associato in Sociologia presso l’Università IULM di Milano. È socia fondatrice di Istur – Istituto di Ricerche Francesco Alberoni. È autrice di oltre settanta pubblicazioni fra cui parecchie monografie.

ARTICOLO PRECEDENTEPROSSIMO ARTICOLO
Back to Top
×