Una terra sull’orlo dell’abisso (capitolo 1 del romanzo Valle senza memoria)

8 Dicembre 2025



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Pubblichiamo il primo capitolo del libro Valle senza memoria
di Michel Besson Bernasconi

La protagonista di questo romanzo è una valle sull'altipiano del Vercores, lungo mille anni di storia, dalla metà del 900 sino al 1944.

Riassunto- Una tempesta di neve isola l’altopiano. Gabriel, pastore solitario e veggente, percepisce una minaccia invisibile e decide di partire verso il priorato. Accompagnato da Guigues, affronta la salita tra gelo e silenzio. Intanto, i monaci del convento, intrappolati dalla bufera, lottano contro la fame e il freddo. Padre Alexis riflette sul senso della fede e della paura, mentre la natura sembra annunciare una fine imminente.

Capitolo 1 – Una terra sull’orlo dell’abisso

I ruggiti del vento avevano improvvisamente smesso di diffondere gli ululati dei lupi, che, forse intuendo l’imminente furia della tempesta, erano fuggiti. Presto, il turbine delle raffiche, sollevando nel crepuscolo dalle tinte funeste nuvole di neve, avrebbe piegato fino al suolo gli abeti della foresta circostante, prima di sradicarli o spezzarli con lugubri scricchiolii, già sovrastati dai terribili muggiti che avrebbero assordato l’altopiano per tutta la notte, poi per l’intero giorno, e ancora per un’altra notte e un altro giorno, e una terza notte, prima di quel mattino dal paesaggio devastato, sul quale si sarebbero lacerate le brume impetuose che avvolgevano la montagna.

In quei tempi, quando le calamità naturali colpivano la campagna, le cui popolazioni sparse, comunicavano a malapena con il resto del regno e, soprattutto, non erano governate da alcun signore di fama, rimanevano perlopiù nel silenzio; alimentavano appena le leggende locali di contenuti malefici, rendendo quei luoghi tanto inospitali quanto le condizioni avverse che ne ostacolavano la vita umana.

Del resto, gli abitanti delle città preferivano proteggersi dalle scrofole o dal fuoco sacro, piuttosto che prevenire, ad esempio, le inondazioni; così, quando avevano occasione di incontrare al mercato quei contadini scesi dalle montagne, li osservavano con sospetto, più preoccupati da un presunto rischio di contagio che dalle sofferenze che avevano segnato quei rozzi, evidentemente diversi tanto nell’aspetto quanto nel linguaggio.

Soggiogata dai flagelli che la decimarono, la società medievale si affannava al ritmo di persecuzioni, epidemie, guerre e carestie; e i montanari, asserviti a ignobili tenutari, consumavano quei secoli oscuri ai margini stessi della memoria, come se fossero già precipitati nell’oblio, ripetendo all’infinito i gesti con cui strappavano alla loro terra sassosa un quotidiano troppo misero, oltre alla caccia e all’allevamento di pecore e capre.

Forse, all’alba del millennio, queste contrade remote ospitarono ordini ospedalieri, con i loro priorati austeramente accoccolati contro il fianco di quelle cime prealpine comunemente chiamate “rocce”, “rocche”, “scogli”, “segnali”, “teste”, “denti”, “becchi”, “banchi”, a seconda della loro forma; o più semplicemente “somme”. O ancora “serre”, quando si trattava di creste allungate e spoglie, che offrivano ai venti le loro pendici coperte di erba rada.

 

Gabriel, il pastore che gli abitanti dell'altopiano avevano soprannominato “il rude” — tanto per il suo carattere burbero e scontroso quanto per le fatiche estenuanti che affrontava ogni giorno con tenacia e sorprendente destrezza — quella sera, al crepuscolo, emise un lungo grido, simile al verso di una bestia selvatica. Si diceva che fosse capace, in tal modo, di tenere lontani i lupi affamati e gli orsi, che però, a dire il vero, in quel periodo erano in letargo.

— «Presagisco una grande sciagura», dichiarò ai paesani, turbati dal suo urlo.

— «I lupi? Orde di lupi?» gli chiesero.

— «No. I lupi sono come sempre. Sono qui, vicini, ma… no. Sento un’altra minaccia. Viene dall’alto, da oltre il passo» — così chiamavano un valico — «dal serre, e da ogni dove attorno.»

I contadini erano abituati alle strane premonizioni di quel pastore che, fin da bambino, si era rivelato talvolta — soprattutto alla vigilia di eventi importanti — un veggente tanto sporadico quanto acuto.

Del resto, circolavano voci stravaganti sul suo conto: alcuni sostenevano fosse nato nel “buco del ghiaccio”, una grotta profonda e gelida nei dintorni che ancora oggi congela le acque che vi trasudano fino all’estate; altri rincaravano, affermando che fosse “figlio dell’orso e della donna”, senza che si conoscesse davvero il fondamento di tale convinzione.

— «Bisognerebbe avvertire Padre Alexis», propose qualcuno. — «Solo lui è capace di decifrare quel che dice Gabriel.»

«Nessuno rivedrà mai padre Alexis rispose il pastore».

Un certo stupore si insinuò tra i villani, che a poco a poco si erano fatti più numerosi e insistenti davanti al fienile.

«Sento che mi chiama. Mi chiama in suo aiuto… ma se ci vado, so che non tornerò. Eppure… posso forse sottrarmi?»

Il silenzio cedette dapprima a mormorii soffocati, poi esplosero i singhiozzi di una contadina. La notte era ormai calata del tutto. Il vento del nord, incanalato sull'altopiano, si precipitava furioso fino alle porte della cornice che dominava la valle, in uno sporgente intreccio di precipizi, due buone leghe più a sud. Ognuno salutò e tornò a casa senza aggiungere parola. Il pastore Gabriel annusò l’aria e riprese a urlare. Il suo lamento ormai non giungeva più da nessuna parte.

«Ormai nessuno può più sentirmi», concesse tra sé. «Domani, compirò il passo e saprò… Saprò, ma sarà senza ritorno. Fino alla Grand Côte, e oltre ancora, finché sarò nel bosco, non temerò nulla. Ma dopo… so che tutto sarà bianco, accecante, spaventosamente bianco. Devo dormire ora. Dormire un’ultima volta. Le voci della notte mi parleranno. Mi indicheranno il cammino che sarà ancora il mio, chissà fino a quando? Il priorato dista appena tre leghe. Ma d’inverno, forse mi servirà un giorno intero, se mai ci arriverò.» Credette di distinguere nell’oscurità il profilo della montagna. Il vento soffiava ancora, ma a tratti si interrompeva. L’aria si era fatta più mite. «È proprio così. Neve in arrivo. Neve ancora.» pensò, rientrando.

All’alba, ben prima che il giorno sorgesse, i monaci del convento si svegliarono al suono della campana. Alcuni di loro trascorrevano l’inverno lontano dalle valli e persino dai borghi montani, ai margini della foresta di abeti e faggi, sopra la quale si ergeva la sagoma nuda del serre, coperta da prati spogli. Dopo la tempesta della sera precedente, dovevano constatare l’entità dei danni. Quel giorno non si parlava di soccorrere un viandante smarrito, un pellegrino stremato dal cammino, o portare la parola buona sull’«arte del morire» a un malato divorato dalla cancrena. Ma quell’isolamento — sebbene imposto dagli elementi — non era forse il riflesso della via che ciascuno, in reazione ai modelli e alle mode, aveva abbracciato come segno della propria differenza?

Tuttavia, il tempo non prometteva nulla di buono, anzi. Non era fuori luogo interrogarsi sul valore di una vita che, all’improvviso, assumeva tratti insoliti. Bruscamente, senza che ciò prefigurasse una fatalità inevitabile, si insinuava in quegli uomini — lieve ma percepibile — un’interrogazione che modificava il loro rapporto con l’assoluto. Non un sentimento, né un dubbio capace di scuotere la loro fede incrollabile, ma una sensazione, epidermica, pronta a distillare nel corpo un messaggio singolare, che fino ad allora solo lo spirito aveva intuito, senza riuscire a formularne il contenuto, nemmeno in via ipotetica.

Un’apocalisse di neve e gelo forse minacciava il loro rifugio, la cui solitudine si faceva tangibile per la crudeltà dell’aria che gelava i polmoni e faceva risuonare il pavimento con echi indistinti, sordi, quasi tutti uguali — come se ogni differenza avesse cessato di manifestarsi; come se la differenza che avevano tanto amato e fatto propria dovesse ora dissolversi davanti all’Eternità.

Certo, questa presunzione appena abbozzata non aveva ancora preso corpo. Forse un pasto frugale e il fuoco ravvivato ne avrebbero dissipato l’ombra indicibile. Eppure, l’atmosfera celava emanazioni sottili che alimentavano una malinconia certa. Il cielo cominciò a schiarirsi, appena, con sfumature di blu indistinto. Il priore si avvicinò alla soglia della porta che dava sul chiostro. Nevicava?

Incapace di distinguere alcunché nell’oscurità, pensò: «Non c’è nemmeno un topo vivo.» Questa riflessione lo turbò, perché in fondo, non aveva forse già affrontato la durezza dell’inverno più volte, non senza aver sperimentato, talvolta, quell’impassibilità che aveva pazientemente acquisito nell’esercizio della sua vocazione? «L’ora in cui soccomberò al Grande Malefico non può essere giunta così, senza preavviso! Mi sarò accecato, senza cogliere i segni del mio smarrimento?»

Si mise a invocare i Cieli, il petto gonfio sotto la sua veste di lana grezza, rivolto al giorno che cominciava a sorgere. L’alba si dissolveva a poco a poco, fondendo i suoi blu in una bianca luminosità quasi fantastica.

Nel frattempo, al villaggio, il pastore Gabriel calzava grossi stivali di pelle. Presto avrebbe preso la sua bisaccia e il bastone, e si sarebbe messo in cammino. Il chiavistello si sollevò e la porta scricchiolò. Era Guigues, il cacciatore, venuto a salutare l’amico.

«Allora, parti…» «Parto.» «Nessuna visione, stanotte?» «No. Ho dormito come un bambino. Credo che gli spiriti non verranno più a visitarci.» «Che vuoi dire?» «I tempi sono quelli che sono. Ti accompagno fino al passo?» «Andiamo.»

Uscirono dalla casupola e attraversarono il villaggio che si stava svegliando. I loro passi scricchiolavano sulla neve. «È fresca. Non si vede alcuna traccia.»

Camminarono ancora in silenzio. «Il sentiero che sale al passo comincia qui. È esattamente allineato con la Roche Rousse.» «Ma non si vede a dieci metri in questa tempesta.» «Nemmeno io la vedo. La sento, lassù. Con questo tempo, la radura della Grand Côte è a tre ore di marcia. Ci fermeremo lì per mangiare, e tu mi augurerai buon viaggio.» «Dove andrai poi?» «Verso i boschi dove i monaci bruciano gli alberi? Potrei passare dalle grotte e da tutti quei buchi che ne segnano il margine, poi raggiungere le creste. Ma non credo di riuscirci.

Meglio varrebbe che andassi dritto verso il tramonto, a ovest. “bene ma come riuscirai attraverso la foresta, è troppo fitta… e non si vede il serre che una volta alle sue pendici». «Riuscirò»

«Andiamo!»

Lasciarono dietro di loro la linea di fondo dell’altopiano e cominciarono a salire, uno dietro l’altro, in diagonale, per risparmiare le forze, affrontando le prime pendici che conducevano al valico. Si piegavano il più possibile lungo il rilievo, tanto per mantenere l’equilibrio quanto per proteggersi dalle raffiche. Avevano la resistenza delle bestie da soma e il coraggio di uomini senza pretese, con in più la determinazione di esseri il cui scopo vale quanto la vita stessa.

In un’ora erano a metà pendio e piegarono il più strettamente possibile. Lassù, forse, avrebbero perforato il soffitto di nuvole e scoperto a oriente la Roche Rousse, la Pierre Blanche e il Grand Mont, che emergeva sopra quel mare increspato come un immenso e unico relitto, la cui chiglia fosse stata squarciata da un lato soltanto, da quel lato che non conoscevano, rivolto a levante, verso quelle montagne ancora più alte, le cui cime — si diceva — toccavano il cielo. Si diceva anche che fossero le porte dell’aldilà, e che spiriti in attesa di accedere al paradiso le abitassero.

Le raffiche di neve si intensificarono. Forse perché salivano di quota. Forse perché il tempo peggiorava col passare delle ore. Così, la loro marcia, iniziata con buon ritmo, si affievoliva man mano che gli stivali affondavano sempre più nella neve, la cui coltre continuava ad aumentare.

Nel contempo, il vortice incessante di fiocchi davanti ai loro occhi rendeva il cammino simile a un avanzare alla cieca, tanto faticoso quanto instabile, poiché mancavano i punti di riferimento. Ma non erano uomini da tornare indietro. Del resto, la loro convinzione non era forse quella di portare a termine l’impresa, qualunque cosa accadesse? Ogni difficoltà, ostacolo, persino incidente, sarebbe stato il frutto di una volontà suprema — almeno della battaglia che Dio e Satana si contendevano per la loro salvezza o la loro dannazione.

Perché in quell’epoca remota e oscura, in cui la Chiesa, i conti di Vienne e quelli di Savoia si disputavano queste terre dell’antica Borgogna, quegli uomini di montagna avevano il raro privilegio di rispondere meno a un signore locale o a un ricco proprietario ecclesiastico, che a Dio stesso.

Con il fiato corto, rauco, selvaggio, attraversarono una breccia che si apriva su un magro prato. Era il passo, o almeno ne ebbero — pur senza alcuna conferma visiva — la certezza nei loro corpi stremati. «Eccoci! È stata una salita dura… Dovremmo trovare un riparo nel bosco e mangiare qualcosa. Un riparo? Conosco una grotta, ma sarà a mezzo miglio da qui. Meglio cercare la baita, se è ancora in piedi. Non si vede nulla, ma so che si trova a meno di cento passi, sulla sinistra.»

Uomini che conoscevano profondamente la natura e il cui corpo era straordinariamente allenato, non ebbero difficoltà a scoprire la capanna che, durante la bella stagione, accoglieva le pecore al calar della sera. Certo, il legno era un po’ tarlato, ma per il momento costituiva un rifugio più che accettabile. Entrarono e ripresero fiato.

«Non è tanto la salita… È il freddo. Intorpidisce. Con questa neve, è impossibile aggrapparsi con le mani. Ci vorrebbero degli artigli.»

Tolsero le moffole e le batterono l’una contro l’altra.

«Lo senti? C’è stato un camoscio qui. Sarà fuggito al nostro arrivo.» «Un camoscio? Non un capriolo o un caprone selvatico?» «No. Fidati del mio naso. Un camoscio… sarà un buon presagio?» «Scendeva sicuramente verso la valle, ed era solo.» «Non mi pare buon segno.» «Perché scendeva?» «No. Perché era solo. Altri potrebbero essere nei paraggi?» «No. Quello non aveva branco.» «Allora?» «È segno che il freddo ha vinto la sua agilità. Un maschio fiero non arretra.» «Giusto. Una volta ne vidi uno sulle falesie, dalle parti di Pételoup. C’era una coppia di aquile. Ognuna aveva un’apertura alare di più di una toise[1]. Pensai che si sarebbe gettato nel precipizio come una pecora spaventata. Invece scalò agilmente le rocce fino alla più alta. Le aquile planavano in cerchi sopra di lui, lanciando il loro grido stridulo come una minaccia ripetuta. Alla fine, si avventarono su di lui con violenza, ma il camoscio si alzò sulle zampe posteriori e gli uccelli cambiarono rotta, posandosi su un gradone dell’abisso, suppongo, perché non li vidi più riapparire sopra le creste. Il camoscio rimase sulla roccia, la sua sagoma stagliata contro il crepuscolo.»

Rimasero entrambi pensierosi per un momento, poi il pastore Gabriel estrasse dalla sua bisaccia alcuni passerotti, una focaccia di segale e una brocca di gres contenente vino.

«Mangiamo! È inutile accendere il fuoco. Ci vorrebbe troppo tempo. Peccato! Avremmo bevuto vino caldo con le erbe. Ne porto sempre con me, per avvolgere la piccola caccia.»

E addentarono con gusto la carne degli uccelletti.

I viveri… Il rifornimento del convento non avrebbe dovuto tardare ancora, ma era chiaro che il monaco partito per il villaggio giorni prima era rimasto bloccato lungo il cammino: derubato, ferito, vinto dalla fatica, forse morto.

Padre Alexis si perdeva in congetture. Quale sentiero poteva aver preso frate Thomas? Un uomo che conosceva il paese meglio di chiunque altro, capace di riconoscerne ogni angolo, ogni svolta! Le sue paure non avevano fondamento… oppure, era possibile che la forza della natura avesse dettato il destino?

Sì, era possibile. Ma allora… ? Quella forza non avrebbe tardato a compiere altre devastazioni, senza che nulla o nessuno potesse ostacolare il suo tragico disegno?

Oh, certo, padre Alexis accettava senza difficoltà che la natura compisse ogni sorta di rovina per poi rinascere e migliorarsi… Tuttavia!

Un turbamento lo abitava. Non sapeva più distinguere la paura insidiosa e tenace che lo tormentava nel profondo, gli stringeva le viscere senza che capisse chi gl’infliggesse quel supplizio, se non la paura stessa, come un altro sé…

Doveva ammettere di punirsi per non aver saputo prevedere eventi che, peraltro, non erano ancora accaduti? Forse. E la sua tristezza non era tanto quella di morire, quanto quella di aver mancato al suo ruolo di penitente.

Rabbrividì. E mentre rabbrividiva, immaginò frate Thomas accasciarsi nella neve dopo aver strisciato fin dove le forze glielo avevano permesso, gli occhi spalancati, rivolti alla terra gelata e accecante. La fame non gli avrebbe concesso tregua. Si mescolò alla paura, e gli parve che il ventre cominciasse a divorarsi dall’interno, come una lenta corrosione, una suzione tanto ostinata quanto vana, di cui già presagiva l’ulcerazione languida, la ferita ostinata, il morso fatale, le emorragie nere e fetide.

Polvere! I suoi sensi si congelavano a poco a poco. Tanto era intirizzito dal freddo, quanto le immagini più dure lo pietrificavano. Il vento avrebbe ululato tra le mura di un edificio in rovina, spazzando la neve con furia fino a formare una coltre contro una stele eretta tra le macerie.

E lui, né vivo né morto, il corpo quasi fuso nella pietra, lui a cui non era stata concessa nemmeno la condizione di giacente, in piedi, nudo, confuso nella roccia, irrigidito nel nulla, presto sepolto come un fossile, murato per secoli, forse per sempre, materia inerte da cui lo spirito se n’era andato… Polvere!

Di fatto, in realtà era lì, in piedi, immobile, lo sguardo smarrito, la mente assente, il cuore strangolato. Doveva riprendersi, richiamare gli ultimi brandelli di volontà per ordinare ai muscoli di muoversi.

Frate Thomas guardò con disperata insistenza la neve che turbinava ovunque. La tempesta non era dunque cessata?! Ma a che pro, a quel punto: non sarebbe comunque stato possibile camminare verso sud, fino alle falesie, fino a quella terra sull’orlo dell’abisso, che dominava la valle, la via verso il Mediterraneo o l’Oriente, che da secoli avevano percorso, alla rinfusa, cacciatori, mercanti e ladri, invasori e civilizzatori, saccheggiatori e fuggiaschi, pellegrini e mendicanti.

E mentre quelle figure innumeri gli apparivano, in cammino su una via tanto smisurata quanto illusoria, ammetteva con malinconia che l’uomo eterno descritto dalla religione, quell’uomo perennemente lacerato tra tentazione e virtù, quell’uomo stremato dal lavoro, colpito dalla maledizione, in cerca di indulgenza e redenzione, probabilmente non aveva ancora superato l’erranza imposta dal suo destino, non era, in qualche modo, ancora entrato nella Storia.

[1] La toise francese corrispondeva a 6 piedi parigini, cioè circa 1,949 metri

 

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Michel Besson Bernasconi

Originario di Grenoble, si è appassionato da giovane alla cultura e al patrimonio italiano. Ha svolto in Francia attività teatrale, sia come scrittore di testi che come attore, si è occupato anche di poesia, saggistica, fotografia e video. Ha operato come imprenditore in campo culturale. Ha pubblicato in italiano il saggio Maschere edizioni Altromondo. I suoi soggetti fotografici sono stati esposti in varie mostre, l'ultima a Grenoble nell'estate del 2025.

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