ll contagio del cambiamento

27 Aprile 2020



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«Etciù».
«Salute!».
Salute?
C’è ancora qualcuno che risponde: “Salute” a uno starnuto?
Riavvolgiamo tutto.
«Etciù».
«Ma che fai? Sei matto!».
E allora, corri in bagno, lava le mani, cambia la maglia, lava la faccia, disinfetta tastiera, mouse, scrivania!
Tutto quello che ti circonda ora è una minaccia per te e viceversa. Anche in casa.
Altro che “salute”. paura!
E pensare che, una volta, “salutare” uno starnuto era un gesto educato.
Dagli antichi, lo starnuto era considerato un’emissione del pensiero. Salutarlo era riconoscere il valore di chi starnutiva.
Il Galateo ci ha (al contrario) insegnato che sottolinearlo era un atto maleducato perché metteva in evidenza un gesto intimo, talvolta imbarazzante, in assenza di un fazzoletto.
Poi tutto è cambiato: lo starnuto è diventato il simbolo di un cambiamento epocale. Lo starnuto, sfiato potente d’aria dai polmoni (pericolosa tanto nell’emetterla quanto nel trattenerla), ha messo sotto scacco relazioni, società, lavoro, economia, divertimento. Tutto.
Lo starnuto, bisognerebbe dedicargli un trattatello, ha verificato la fallibilità e la vulnerabilità dell’uomo. Come nella storia dell’elefante e del topo, ci siamo ritrovati fragili, impauriti, per via di una particella infinitesimale (un miliardesimo di metro, un milionesimo di millimetro): l’invisibile sparato a grande potenza nell’aria, da uno starnuto.
E ci siamo riscoperti ammalati.
Ammalati di incertezze, di sfiducia, di paure, di diffidenza. Dell’incapacità di una visione (futuribile) di salvezza.

Il mondo è malato.

Noi siamo malati.
Ne usciremo cambiati.
Ne usciremo guariti?
Nessuno si senta immune dal contagio del cambiamento.
Dobbiamo guardare al futuro con uno sforzo collettivo e costruttivo per la buona salute di tutti.
A partire dalla vita di condominio, dalle zone, dai comuni, dalle Regioni, ai piani sempre più alti delle istituzioni.
Con più attenzione per il prossimo.
Il “prossimo” appunto quello più vicino a noi, “dal lat. proxĭmus ‘vicino’, molto vicino, a brevissima distanza”: ad esempio un vicino di casa, quello che per uno strano caso della vita è arrivato ad abitare accanto a noi.

Inventeremo nuovi mestieri e grandi alveari trasparenti per la socializzazione protetta/contenuta dove tutto sarà digitalizzato nell’oltrereale.
Ognuno dal suo esagono curerà la sua nostalgia del passato, quando tutto era così normale ed evidentemente imperfetto.
Sono in un futuro così lontano le folle dei concerti, le feste in discoteca, gli amici tutti insieme a farsi compagnia.

Gli abbracci innocenti. I baci sulle guance. Le mani degli amanti.

Ma un giorno verranno a dirci che la clausura è finita.
“Alleluia” risponderemo.
Quel giorno esulteremo, saremo nelle strade, liberi e candidi come cristi risorti. E finiremo esausti con l’orgoglio (della nostra italianità) alzato dentro i calici, sotto bagliori di stelle filanti o lanci di foglie d’ulivi.
L’euforia sarà incontenibile.

Ma ci saranno altre verità nascoste tra le mura.

Tra panni da stirare, bocche da sfamare, e i bicchieri mezzi vuoti delle disperazioni.
Dovremo avere più attenzione, prenderci cura di chi non avrà più la forza per rialzarsi, per intonare i cori, per credere nei cuori.
L’“Alleluia” non può essere un canto freddo e solitario ma una preghiera di guarigione, un canto di liberazione e di rinascita per tutti.

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Luisella Pescatori

È direttore artistico e della didattica di Atelier la sua agenzia letteraria di Milano. Si occupa di editoria, di comunicazione e di rappresentanza di autori. Professionalmente si forma in Teatro, recitando in diverse compagnie di giro, in spot pubblicitari, in produzioni cine-televisive. Il Teatro è oggi uno dei plus delle sue docenze, esclusivamente individuali, di scrittura creativa. Ha lavorato per diversi anni in un’importante web agency milanese. È coautrice de “La profezia delle triglie” testo adottato come materia di studio al corso “Sociologia della devianza” Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Università della Calabria. Scrive su Huffpost.

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