La mia attenzione per l’orizzonte coincide con un innamoramento. Inizio a domandarmi dell’orizzonte a partire dall’innamoramento e l’orizzonte per eccellenza è quello marino, che esagera la vista fino al suo lineare sconfinamento. E scopro che esiste una formula in grado di misurare questo preciso sconfinamento:
d = 112,9 * √ h (km)
Il punto più lontano che riesco a guardare, la distanza cioè d, è uguale ad una costante, cioè 112,9 moltiplicata per la mia altezza, h, espressa in km. Nel mio caso, sono alta 1,67 m che, misurati in kilometri, corrispondono a 0,00167 km. Dunque, dal mio punto di vista, ecco il calcolo della distanza che riesco ad osservare:
d = 112,9 * 0,040865633483405 = 4,6137300020276436 km
Posso allora arrivare a vedere sino a circa 4,6 km, considerando che ho un’acutezza visiva di dieci decimi. Se invece salissi su di una terrazza, per esempio al primo piano, direttamente affacciata sul mare, diciamo a 4 metri di altezza, potrei guardare sino a:
d = 112,9 * 0,063245553203368 = 7,140422956660201 km
L’orizzonte si modifica, si sposta e si allontana, con il modificarsi dell’altezza fisica da cui lo si guarda. Ma a questo punto cresce la mia curiosità sull’orizzonte e la sua relazione con il soggetto che lo percepisce, e le domande in me si moltiplicano.
Perché mi sono interrogata sull’orizzonte da innamorata? C’è una relazione intrinseca tra la percezione dell’orizzonte e il mio stato d’animo, o si è trattato di una concomitanza particolare? E ancora: esiste una correlazione non solamente tra l’altezza fisica del soggetto e la percezione dell’orizzonte, ma anche tra la condizione emotiva particolare del soggetto e la percezione della distanza? E se è così, quanto si modifica l’altezza in un soggetto innamorato?
L’innamoramento non è regressione, non è chiusura ma dilatazione, è slancio in avanti e per questo la prospettiva di chi è innamorato non può che proiettare oltre, in avanti, spostare la linea dell’orizzonte, come succede quando si aumenta l’altezza del punto di vista.
L’orizzonte è una smisurata opportunità di dipingere la propria apertura e rappresentarsi il confine del desiderio in movimento, in equilibrio, tra lo sfumato e il certo. L’oggetto del mio innamoramento non era presente, tuttavia l’orizzonte mi ha offerto la più grande fiducia in lui, perché c’era una linea sulla quale riposare il mio sguardo, con tutte le sfumature più esatte, e sempre meno.
L’orizzonte con il suo scenario polveroso e la sua vaghezza, la sua lontananza, il suo sfuggire e allo stesso tempo riproporzionarsi su ogni mio mutamento di altezza e di punto di vista. Come nel sublime di Kant, non vi è nessuna staticità, nessuna quiete nel pensare o guardare l’orizzonte, né in me che lo guardo, né nella sua linea, in continuo spostamento.
Una lontananza visibile che non è affatto assenza, è quasi assenza. Una presenza al limite minimo. Perché è quasi tutto soggetto ma non è solo soggetto, è un soggetto con quasi un oggetto. Un minimo di oggetto che tuttavia è smisurato. L’orizzonte è la possibilità più lontana anche se la più presente.
È evidente che ogni descrizione dell’orizzonte apra un paradosso, una compresenza di opposti in disarmonica armonia, e come il desiderio e la sintassi dei sogni, sia al di là del principio di non contraddizione: limite definito e vaghezza infinitesimale; presenza indissolubilmente legata alla mia percezione e lontananza più remota; consolazione salvifica perché punto di arrivo e irraggiungibilità; esercizio del presente e slancio aperto al futuro.
La formula dell’orizzonte può allora inscrivere in filigrana un coefficiente del sublime dove la distanza visibile dal soggetto, sia proporzionata oltre che all’altezza fisica, soprattutto al suo desiderio.