A ogni epoca i suoi sogni. Ma oggi cosa sogniamo?

15 Marzo 2019



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L’essere umano non ha mai accettato totalmente la sua condizione terrena e ha sempre avuto bisogno di pensare che i mali e le ingiustizie vissute quotidianamente fossero solo un aspetto temporaneo e circoscritto della realtà possibile, e che in altri tempi o in altri luoghi fossero esistite società perfette.

Queste società sono state immaginate in modo diverso a seconda delle epoche e delle culture. Nella nostra antichità, erano collocate negli stessi luoghi, ma in un passato lontano. Si riteneva infatti che la corruzione riscontrata nella società fosse dovuta a un evento preciso, come per esempio, uno sgarbo fatto dagli uomini agli dei, o la disubbidienza di Adamo ed Eva a Dio nota come “peccato originale”, che avevano posto fine all’età dell’oro o che ne avevano provocato la cacciata dall’Eden. E, proprio grazie al confronto con un passato perfetto, si potevano individuare e spiegare i mali e l’imperfezione dell’epoca presente.

Le società creatrici di miti erano perlopiù comunità agricole dove il tempo quotidiano era ciclico scandito dai ritmi della natura. La vita e le attività seguivano l’avvicendarsi del giorno e della notte e il corso delle stagioni. Non vi erano né evoluzione né cambiamento. Solo in particolari momenti si usciva dalla quotidianità, era il tempo sacro delle feste dove, attraverso i riti, si ricordava il tempo passato, si facevano tornare vivi i miti.

Poi, con l’età cristiana, la visione ciclica del tempo viene spezzata e le persone non guardano più solo al passato come modello di perfezione ideale, ma al futuro. Si diffonde così l’escatologia, cioè la dottrina che indaga sul destino ultimo dell’essere umano. Al paradiso terrestre, pur vissuto come passato reale, ora si preferisce infatti il sogno di un paradiso futuro, che non è su questa terra, ma dopo la morte. È avvenuta così una trasformazione radicale nei nostri punti di riferimento ideale. Dallo sguardo nostalgico a un passato comune che si cercava di riattivare attraverso delle cerimonie collettive, si è passati alla fede individuale di chi è proteso verso un futuro di beatitudine. Il rimpianto è divenuto speranza.

Quando nascono le prime utopie– che hanno un’epoca di splendore dal Rinascimento all’Illuminismo - lo sguardo dell’essere umano cambia di nuovo direzione. Se il mito colloca la società perfetta all’inizio del tempo e l’escatologia alla fine, l’utopia la pone fuori dal tempo e fuori dallo spazio. Nelle società che producono utopie, prevale un essere umano che fa uso della ragione. L’utopia è infatti una creazione individuale cosciente, riflessa, ragionata volontaria, che porta all’immaginazione di società ordinate, pianificate con cura, dalle forme geometriche, regolate in modo razionale, efficiente. Qui non prevalgono più il sentimento o il desiderio come nell’escatologia, ma l’intelligenza e la ragione. Inoltre, cosa non da poco, per realizzare il sogno escatologico, ci si pone nelle mani di Dio, per realizzare quello utopico, ci si affida alle capacità umane. Molti utopisti, infatti, tentano di realizzare i loro modelli ideali nella loro società e nel loro tempo.

Ma, se il mito è una forma tipica dell’antichità, l’escatologia del medioevo e l’utopia del rinascimento e dell’illuminismo, oggi in che forma concepiamo una società ideale? O meglio, la pensiamo ancora? Se secondo Oscar Wilde, per esempio, “una mappa del mondo che non include utopia non è degna nemmeno di uno sguardo perché lascia fuori l’unico paese che la umanità ha sempre avuto quale suo approdo…” E, più tardi, nel 1921 Lewis Mumford scrive che la storia dell'utopia è l'altra metà della storia dell'uomo, infatti, "l'uomo cammina con i piedi in terra e la testa per aria, e la storia di ciò che è accaduto sulla terra è solo la metà della storia dell'uomo".  Una storia che spesso appare bloccata dall’incapacità, o dalla mancanza di volontà, da parte di chi governa e di chi è governato, di guardare avanti, di riconoscere i propri difetti ed errori, di cercare modelli virtuosi a cui ispirarsi o di individuare e valorizzare quello che di buono c’è nel presente senza temere il nuovo valutandone obiettivamente gli sviluppi futuri senza timori e senza pregiudizi. D’altra parte, come osservava David Riesman negli Anni ’50 del XX secolo, lo status quo è la meta politica più importante per molti perché richiede scarso coraggio ma in una società dinamica come la nostra, lo status quo è anche la più illusoria delle mete.

Oggi, però come quasi unica alternativa alla realtà presente, non abbiamo più l’utopia, ma la distopia. Libri, fumetti, serie tv, film, soprattutto per i giovani, illustrano spesso delle società distopiche– cioè delle utopie negative – dove si immagina un futuro terreno peggiore del presente, conseguenza dell’evoluzione sociale, politica e tecnologica in atto. Queste distopie possono essere utili per metterci in guardia dai pericoli di certi comportamenti ora in atto, di ideologie volte ad annullare la libertà, dell’uso improprio di Internet, dell’applicazione distorta delle invenzioni tecnologiche e così via. Ma non bastano a dare nuovi punti di riferimento a cui aggrapparsi, nuovi valori in cui credere, nuove indicazioni su un possibile percorso da intraprendere. Se non si troverà un nuovo modo di sognare o progettare una società ideale, si rischia di navigare a vista o di affondare nello sconforto dovuto alla constatazione di un presente per molti versi deludente.

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Rosantonietta Scramaglia

Laureata in Architettura e in Lingue e Letterature Straniere, ha conseguito il Dottorato in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Ha compiuto studi e svolto ricerche in Italia e in vari Paesi. Attualmente è Professore Associato in Sociologia presso l’Università IULM di Milano. È socia fondatrice di Istur – Istituto di Ricerche Francesco Alberoni. È autrice di oltre settanta pubblicazioni fra cui parecchie monografie.

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