Amare non si impara

18 Maggio 2020



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Pur avendo riferimenti familiari, storici e civili, il profondo del nostro essere ci suggerisce che forse l’ignoto è la nostra patria. Non sappiamo davvero da dove veniamo, e questo luogo misterioso è un riverbero continuo dentro di noi. La psiche è un'entità e abita nel nostro corpo, allo stesso titolo del cuore genera segnali e, in linea di principio, reagisce alla vita. Come un fiore nasce da una pianta, cosi dalla psiche nascono segni; e i simboli dell’inconscio ne sono la parte più misteriosa e profonda. Come reagisce, allora, il corpo all’amore? Come reagisce il nostro strumento biologico «al raggio violetto dei suoi occhi» (per dirla con A. Rimbaud), alla lancia psichica che ci trapassa? Quali sono i segni dell’amore? C’è un alfabeto da imparare oppure siamo, e restiamo per tutta la vita, ignoranti al suo cospetto?

 

L’amore è un maestro che non spiega, ha un linguaggio oscuro e imprevedibile. Ma grazie all’amore, ciascuno di noi impara qualcosa di sé stesso.

Certo l’amore ha un linguaggio, che tutti finiamo per utilizzare un giorno; tuttavia non ha grammatica. Si tratta di una forma di espressione che si serve della parola e del corpo, ma che davvero non è codificato. Una cosa è certa: scrive dentro di noi parole e frasi che restano indelebili. Qualcuno potrà dire di non ricordarsele, di averle dimenticate con il tempo, ma le parole dell’amore sono incise nella realtà psichica, oltre che nella memoria. «Non ti amo più» è una frase terrificante. «Ti amo» è un’altra frase terrificante. La paura ha le sue due facce: avere e non avere, essere e non essere.

Perché ci innamoriamo? Perché abbiamo perso qualcosa e ci sembra, finalmente, di ritrovarla in qualcuno che incontriamo. Non ci sono parole che descrivano la cosa persa, sarebbero troppo dolorose, forse. Ecco, non si riesce a dirle, queste parole, e allora ci si innamora.

L’amore è innanzitutto mancanza, forse. Mi manca qualcosa, finché si fa un incontro. L’incontro è con chi è differente, chi non mi conferma in quello che già so, ma in quello che mi inquieta, perché non lo so. Incontro qualcuno che non è li per curarmi o completarmi, o rassicurarmi, eppure accanto a lui/lei mi sento toccato da un balsamo: l’incontro è un’emozione inquietante che mi è al contempo familiare .

L’incontro ci coglie sempre impreparati. Qualcuno si innamora subito, qualcuno ha bisogno di tempo. Poi un accumulo rapidissimo di sensazioni si mette in moto, e ci si trova ad aspettare, a non pensare quasi più ad altro che a quella persona. Al Barone Rampante, nelle parole di Italo Calvino, succede cosi: «Cosimo si gettò nel folto, avrebbe voluto che fosse mille volte più folto, una valanga di foglie e rami e spini e caprifogli e capelveneri, da affondarci e sprofondarci, e solo dopo essercisi del tutto sommerso, cominciare a capire se era felice o folle di paura». Resistente come un rovo come per Cosimo. Oppure come un fiore del deserto, l’innamoramento condivide con il deserto molte caratteristiche: l’orientamento è quasi impossibile, la sete inestinguibile, l’orizzonte incerto e mutevole.

Eppure, questa condizione di incertezza può essere anche la fonte di una grande energia creativa.

L’amore non si impara, ma fa imparare. Ed è la più immediata e misteriosa esperienza dell’esistenza che l’essere umano può fare. Tale esperienza di declina oggi in modo assai diverso. Le reti sociali e le modalità di comunicazione consentite da Internet garantiscono automaticamente una «immediatezza» continua priva di concretezza. Si tratta di una cosa diversa, non è vero contatto, ma reperibilità, possibilità di controllo e di risposta in tempo reale; l’immediata esperienza dell’amore, nel momento di un incontro sentimentale, è una merce diventata rara, perché attenuata, disinnescata nella sua potenza concreta, da intere sessioni di scambio on-line dove ogni mistero è già svelato. È molto difficile resistere a questa comoda tentazione di essere in contatto diretto sempre attraverso messaggi e video telefonate. Ne consegue, e non stupisce; un fenomeno nuovo di questa epoca dell’accesso assoluto: il ghosting (sparire come un fantasma).

Dopo una sbornia di «troppo», ecco che uno dei due si sfila dalla storia senza dare più segnali o risposte. Questo non accadeva prima dell’era dello smart-love e dello smartphone. C’era la sparizione, certo, ma era, diciamo cosi, uno sparire della persona nella sua interezza, nella sua presenza anche per gli altri. Il «marinaio» spariva per tutti, spariva per ripartire verso nuovi lidi. Oggi il «ghost» non risponde più all’altra persona, ma continua a fare la sua vita normalmente. Gli basta non rispondere e non scrivere a un solo numero di telefono, il gioco è fatto, non c’è più. Ecco che il muro della non-comunicazione diventa più alto e insormontabile proprio all’epoca dell’accessibilità e dell’interconnessione massima. Come mai? Forse l’amore non è quello che passa per le strade facili di internet. Forse è una cosa più rara e non così a buon mercato. Forse per viverlo serve più di un telefono. Forse il ghosting è una naturale difesa da un’invasione dello spazio dell’altro che è sempre più favorita dalla tecnologia.

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Claretta Ajmone

Clara Ajmone, psicologa clinica e psicoterapeuta, ha lavorato per più di trent'anni in ambito psichiatrico, nelle Strutture Territoriali e Ospedaliere del Servizio Sanitario Nazionale. Fino al 2009 è stata Responsabile della Struttura di Psicologia dell'Ospedale di Niguarda, dove ha svolto attività di Psicoterapia individuale, familiare, di coppia e di gruppo. È stata didatta e tutor per psicologi allievi di varie scuole di psicoterapia.

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