La maternità non è solo una parete d’utero o un “senno mammario”. La maternità è un dono, un dono grandissimo che risuona in ogni ossatura (del corpo e della mente) femminile. È quel desiderio che alcune donne coltivano già dall’infanzia e attiva un’aspettativa biologica. Una pianificazione di eventi.
Tagore, nella trasparenza uterina di una sua poesia: Maternità, fa dialogare una madre col proprio figlio, o per meglio dire, fa interrogare la madre dal figlio.
“Da dove sono venuto? Dove mi hai trovato?” e la madre piangendo e ridendo (commossa e felice) risponde che lui era già nascosto nel suo cuore e ne era il desiderio.
Se l’era già figurato, sin dall’infanzia, in quel luogo del “magico se” (ipotetico se) o di quel “facciamo finta che” (tipico dei bambini) dove la fantasia prende forma in un gioco serissimo.
La madre, quella della poesia di Tagore, aveva avuto una visione di maternità.
In tutte le sue speranze, in tutti gli amori passati, in tutta la sua storia, il suo bambino era già vivo: presente nei suoi pensieri. Nei giochi d’infanzia, lo aveva visualizzato, abbracciato, sfamato.
Nella semplicità, nonché sapienza evocativa, Tagore (in lui il concetto di umanità è elevato e sconfinato) richiama congiuntamente la spiritualità e l’idea del dono.
Il bambino è il dono di uno Spirito senza tempo che lo ha cullato prima di consegnarlo alle braccia della mamma.
È vivida l’immagine di Tagore. In un’onda di mistero contemplativo la madre osserva il viso del suo bambino domandandosi, oltre allo Spirito, quale altra magia abbia affidato il “tesoro del mondo” alle sue esili braccia.
È la stessa intensità che troviamo nella Maternità, del periodo rosa, di Picasso, nella delicatissima scena dell’allattamento. Madre e figlio sono una sola forma avvolta da uno scialle. La madre ha gli occhi chiusi sognanti. Anche questa madre ha tratti esili, tranne nella formosità del seno.
Il color ottanio dello sfondo (una miscela di grigi e di blu) è la parete della maternità che li rende indistinguibili tra loro ma staccati da tutto il resto.
La madre è nido che accoglie e ammanta di dolcezza la sua creatura, ma al contempo deve saper sbranare o attaccare per proteggere sé stessa e il suo piccolo o sollevarlo dall’ultimo dolore.
La forza della maternità è anche rappresentata nella storia, molto triste, di un’elefantessa incinta andata a morire, affondando le zampe nel fiume, per un ananas imbottito di petardi esplosole nella bocca. L’elefantessa ha cercato di portare sollievo alla sua creatura che lentamente cresceva e moriva, con lei e in lei. In questo loro camminamento, verso la morte, proprio nell’India di Tagore, l’elefantessa non ha avuto altro pensiero che tentare di alleviare il dolore al suo "nascituro" morente.
Non ha aggredito un solo uomo nel suo tragitto disperato, non si è lasciata dietro alcuna distruzione, ha solo sofferto, la bocca dilaniata, il fuoco nella testa.
Ha sofferto per lo strazio di un figlio interrotto.
E, in ogni madre, non c’è nulla di meno della santità di Maria.
Le donne sanno che portano un greve paniere, che si aprono al dolore. Parlare di donna e di maternità è come aprire l’enciclopedia dei sentimenti, la galleria delle meraviglie del mondo.
È un tema imprescindibile dall’universo femmineo.
La maternità ha sempre conseguenze importanti nella vita di ogni donna.
Cambia le relazioni, cambia la misurazione del tempo (lo rallenta in una calda ninna nanna o lo accelera in un momento di preoccupazione e di paura).
La maternità cambia i bisogni.