Riteniamo che l'ultima rivoluzione politica che colpì l'Occidente rimandi ai totalitarismi che precedettero la Seconda guerra mondiale e alla guerra stessa.
Ricordi memorabili e terrificanti, a poco a poco relegati a cerimonie, inaugurazione di un monumento o di una lapide, con deposito di fiori e discorso solenne.
Per fortuna, non tutte le rivoluzioni, o il tentativo di farle, sfociano nella violenza efferata come quella che sconvolse il secolo scorso.
Durante le guerre, la vita economica e sociale riposa principalmente sulle donne, e quando i soldati del fronte tornano alla vita civile, sono sempre le donne che perlopiù concedono loro un reinserimento non facile.
L'accenno alla guerra, pertanto, risulta imprescindibile per capire, come, vent'anni dopo gli accordi di Jalta, sia esplosa la “rivoluzione del costume”.
Quarant'anni più tardi è giocoforza constatare che fu e rimane una rivoluzione femminile. La rivoluzione femminile è forse l'unica reale rivoluzione degli ultimi ottant'anni, nell'ambito socioculturale.
Questa rivoluzione, che profondamente modificò le relazioni, gli ambienti lavorativi, le strutture sociali, l'economia e la politica, non mancò di provocare forti resistenze e aspri commenti, senza dimenticare le inevitabili espressioni generate da una certa indole maschile: dalla semplice smorfia piena di sottintesi, agli apprezzamenti più volgari.
Ricordo ancora chiaramente le domeniche mattina in cui nei bar e in piazza, gli uomini, radunati in fitti gruppi rumorosi, occupavano lo spazio pubblico, litigando per la politica, lo sport, o qualsiasi argomento irrilevante, senza presenza femminile, se non la cameriera o la donna di servizio, spesso oggetto di qualche sarcasmo.
Infatti, il movimento di emancipazione femminile, nel suo svolgersi, produceva in tanti uomini non la consapevolezza di un ampliamento delle possibilità e vissuti propri e comuni, ma il timore di un pericolo indefinito.
Più che un freno al cambiamento, tuttavia, tali atteggiamenti contribuivano al rafforzamento di una coscienza e a un’affermazione della donna che non doveva più essere smentita.
In passato, da Ernestina Paper (medicina), a Maria Montessori (pedagogia), a Grazia Deledda (Nobel di letteratura 1926), anche in Italia donne famose avevano aperto un varco nell'egemonia intellettuale maschile. Ma erano eccezioni.
Dopo la guerra, le rappresentazioni del mondo andarono incontro a una profonda modifica. In seguito, lo sviluppo del turismo, l’aumento della produzione automobilistica e la larga diffusione della stampa femminile, contribuirono ad alimentare e consolidare il movimento. Anche la moda fece la sua parte con l'apparizione della minigonna ad esempio (Mary Quant e Courrèges), che liberò un corpo fino allora nascosto, quando non rimaneva reso invisibile da interminabili lutti (quello del padre defunto in particolare).
Il cinema propose immagini femminili divinizzate (Lucia Bosé, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Monica Vitti in Italia, Brigitte Bardot in Francia, Marilyn Monroe negli Stati Uniti per esempio), non per nulla chiamate “Dive”, icone che oltre a modificare l'immagine della donna, ebbero un impatto innegabile sulle mentalità.
Tra casalinga e oca desiderabile, tra Vergine (con o senza maiuscola) e prostituta, la stragrande maggioranza delle donne aveva ora un tutt'altro ruolo sociale da svolgere, e si stava emancipando.
Se non affrancata dalle convenzioni sociali, dal peso delle tradizioni e da un certo moralismo residuo, le donne s'incarnano ormai nella femmina, non soltanto quella dell'uomo (a patto di ritenere quest'ultimo il maschio della donna), ma specifica al genere umano.
Di certo, un simile sisma socioculturale non può scampare a numerose contraddizioni, a varie opposizioni, nondimeno ad alcune confusioni.
Francesco Alberoni (‘Pubblico e privato’, Garzanti 1987), scriveva:
«Le donne, ancor oggi, gestiscono la salute e la bellezza del proprio corpo e di quelli dei propri cari. Gli uomini non sanno nulla di queste cose. Lasciano fare. Lasciano fare ma, spesso, ostentano un comportamento di sufficienza. È come se ci tenessero a far sapere a tutti che quelle sono cose prive di importanza, frivole.
Loro hanno ben altro in testa».
Quarant'anni più tardi, i tempi sono cambiati e risulta comunque difficile discernere nell'insieme dei movimenti che continuamente animano in modo più o meno dinamico una società. Gli uomini sono cambiati anche loro, verosimilmente e perlopiù riguardo alla libertà dell'altro sesso.
Irrinunciabile, quindi, é l'osservazione secondo cui le donne hanno cambiato il mondo: chiedono maggiormente il divorzio rispetto agli uomini, hanno avventure, amanti, scombussolano l'ordine costituito, sia pure talvolta a immagine di quello che fantasticano sull'uomo. Sarebbe inetto voler giudicare i vari comportamenti da un punto di vista moralistico. Meglio chiedere: “Cos'è successo, cosa succede? Come? Perché?”.
Alcune conseguenze gravano del resto sulla collettività: il crollo delle nascite, che porta al suo invecchiamento, per fare un esempio.
Parallelamente perdura il peso di ideologie oscurantiste, per quanto ciò sembri apparentemente sporadico. Il lettore capirà lo sconcerto che provoca veder sventolare bandiere e simboli di movimenti che esaltano la repressione contro le donne per motivi di buon costume e vietano alle ragazze l'accesso allo studio, e questo in manifestazioni che si richiamerebbero al femminismo.
Bella strumentalizzazione!
Ma dobbiamo ammettere che l'estro potente degli ultimi decenni si è declinato al femminile.
L'assimilazione corrente di femminile e femminista lascia più di qualche dubbio.
Quando scrisse ‘L'erotismo’ (1986), Francesco Alberoni insistette su questo punto:
«In questo momento della storia, le donne e gli uomini cercano quello che li accomuna, superando le differenze. Però hanno anche diverse sensibilità, diversi desideri, diverse fantasie.
Entrambi, spesso, immaginano l'altro come, in realtà, non è, e pretendono cose che egli non può dare. L'erotismo si presenta sotto il segno dell'equivoco e della contraddizione».
Il movimento detto “Rivoluzione del costume”, ormai, insiste su una specie di trionfalismo, di realizzazione di sé, in cui la sessualità assume un ruolo primordiale. Fondamentalmente, nessuna società può occultare amore e sessualità dalla dinamica che esprime. Non dovrebbe perciò elevarli a modello condiviso da tutti.
Eppure, la stessa sessualità sembra essere stata assorbita dall'individualismo.
Ciascuno di noi, consapevolmente o no, cerca nelle relazioni un'armonia. La stessa armonia non può scaturire miracolosamente da una rivoluzione epocale, anche se quest'ultima è senza dubbio necessaria.
L'armonia è esigente, e fa soffrire. L'amore è esigente e fa soffrire. E possiamo dire lo stesso della sessualità.
A che punto siamo? Mai mi arrischierei a esprimere un parere al riguardo. Tra riviste, corriere dei lettori, trivelle, studi vari, difficilmente sorge la luce.
Francesco Alberoni e Cristina Cattaneo (‘Amore mio come sei cambiato’, 2019, ‘Amore e libertà’), scrivevano:
«Gli innamorati hanno un bisogno fisico di stare insieme e tendono a vivere insieme, a passare il maggior tempo possibile insieme. Questa situazione che diventerebbe di monotonia e di noia per due persone che non si trovano nello stato di innamoramento in loro invece è fonte di una continua scoperta, perché essi sono alla ricerca uno dell'altro e in ogni incontro imparano qualcosa di sé e del mondo».
Questa bellissima asserzione, che collega gli individui e il mondo attraverso la scoperta l'uno dell'altro, rimanda anche a un presupposto non tanto corrente: la complicità.
‘Come potrei scoprirti e scoprirmi, senza di essa?’
E la risposta è: ‘non potrei, non potresti’.
Al di qua della donna e dell'uomo, esiste, misteriosa, nascosta, sconosciuta, una persona, una persona: mente, cuore e corpo, qualunque sia l'ordine che si voglia.
Una persona che non può fare a meno di scoprire il mondo.
La natura ci insegna che se non va in rigoglio, deperisce, addirittura si estingue.