L'emergenza coronavirus ha portato nelle case degli italiani un termine precedentemente noto solo agli appassionati: i runner. Questa parola, come "smart working" o "distanziamento sociale", è entrata solo recentemente nel vocabolario corrente dell'italiano medio, anche perché le è stato dato grande spazio nei comunicati stampa del premier e degli incaricati all'emergenza delle regioni. Durante il primo lockdown infatti alla categoria dei "runner" è stato vietato di correre nelle strade, suscitando dibattito tra le persone. C'è chi era pro e chi contro: chi considerava un cattivo esempio che si corresse per la città mentre tutti erano chiusi in casa, altri sostenevano che, loro, correndo, "seminavano" comunque gli altri e quindi attuavano già un distanziamento sociale.
Comunque la si pensi, si è parlato molto di questa categoria di persone, che costituisce un vero e proprio esercito, così nutrito che è impossibile ignorarne l'esistenza, anche terminologica.
Un tempo si chiamavano genericamente podisti e non erano in tanti. Negli anni settanta erano in decisa minoranza rispetto ai cosiddetti "ciclisti della domenica", prevalentemente uomini di mezza età che, vestiti come i Gimondi del caso, incrociavamo nelle strade provinciali con il fiatone da salita.
Ora i runner sono moltissimi e molto coesi. Hanno blog, gruppi sui social, in parte sono iscritti alle palestre e ne sono per così dire la versione "outdoor", per la maggior parte sono persone che dedicano a questa attività almeno tre giorni di allenamento alla settimana, spesso corrono ogni giorno, con cronometri, pulsometri e scarpe hi tech. Hanno un linguaggio da iniziati, si identificano come gruppo individuando un "noi" e un "loro", parlando dei non runner, hanno riti, raduni, letture di riferimento.
L'emergenza pandemia li ha costretti al fermo, così come tanti altri sportivi, ma da subito è apparso chiaro che erano i più insofferenti. Come mai? E come mai in questo primo ventennio degli anni duemila è diventato così vitale correre all'aperto in modo agonistico? Perché per alcuni è quasi come una religione?
Le case in cui stiamo vivendo in questo periodo storico sono diverse da prima, molto più piccole rispetto a quelle degli anni ottanta, come hanno scritto nel magazine Francesco Alberoni e Rosantonietta Scramaglia. Sono nate per avere la funzione prevalente di dormitori, dove riposare dopo un'intera giornata fuori casa, chiusi in un ufficio. Non offrono spazi e confort tali da essere vissuti come rifugi di tranquillità e tempo per se stessi.
L'unico momento per connettersi con la propria individualità diventa così quello in cui ci si allaccia le scarpe e si corre per chilometri e chilometri da soli, a contatto con le proprie sensazioni fisiche e psichiche, senza l'interferenza degli altri e l'oppressione di una casa che sembra una scatola.
Forse essere runner è stato il primo momento di distanziamento sociale del millennio?
Ma non è solo questo il motivo della "mania della corsa". Esiste un'autorevolissima letteratura sui runner, scritta da scrittori che sono anche runner. Il più celebre è Murakami Haruki, scrittore giapponese pluricandidato al Nobel, che alla corsa solitaria ha dedicato addirittura un intero libro, ovviamente best seller, "L'arte di correre", in cui racconta la sua esperienza come maratoneta amatoriale.
La corsa praticata da runner (che si differenzia dallo jogging per agonismo, velocità, costanza negli allenamenti, e attenzione a tempi e distanze) è una disciplina che secondo lo scrittore forgia il carattere e migliora anche le performance professionali nell'attività lavorativa (nel suo caso la scrittura). Inoltre, secondo Murakami e non solo lui, la pratica dell'allenamento per arrivare gradualmente a percorrere l'equivalente di una maratona o di una mezza maratona, instilla nell'animo la capacità di elaborare progetti a lungo termine.
Correre con un certo ritmo, inoltre, produce quello che alcuni chiamano "l'orgasmo dell'atleta". Un'attività fisica di un certo tipo, infatti, pare produca un livello di endorfine molto alto, simile a quello di un antidepressivo, a tal punto che negli USA ci sono già psicologi che curano gli "addicted" di questa disciplina, che pare dia in alcuni casi, dipendenza fisica, se praticata in eccesso. La gratificazione dei progressi può diventare simile a quella che dà un videogioco ,per cui il cervello ha una scarica di benessere tutte le volte che supera un livello. "Spingere" troppo il fisico alla ricerca della performance, inoltre può essere pericoloso.
Da ultimo, in questa esplosione numerica di runner non è estranea la cultura della bellezza fisica e della magrezza, oltre che del salutismo, già diffuso da anni in occidente. Conquistare un aspetto piacevole passa oltre che dalla dieta, dalle cure estetiche e chirurgiche, anche dall'allenamento quotidiano nella corsa. A scanso di equivoci comunque, nella maggior parte dei casi, essere runner è una pratica che fa bene alla salute, è economica, democratica, e pare allunghi la vita.
Tuttavia dopo l'esperienza della pandemia e la rivalutazione degli spazi intimi, della casa, la moda dei runner potrebbe passare. Può essere che quando il mondo trasformato dallo smart working renderà le case più accoglienti e grandi, se si ripopoleranno le cittadine e i borghi, se nel tempo libero diurno si ritroverà il gusto della chiacchiera in piazza, se l'aspetto fisico diventerà meno importante in quanto meno legato all'attività lavorativa" in presenza", il fenomeno dei runner si attenuerà, e si tornerà a "fare ginnastica" e darsi ogni tanto a una corsetta, o a una passeggiata veloce, solo per stare in salute e senza farne una ragione di vita e di appartenenza.