A Piacenza di quel che non c’è si fa senza: la provincia dimenticata e il coronavirus

1 Aprile 2020



A Piacenza di quel che non c'è si fa senza: la provincia dimenticata e il coronavirus
A Piacenza di quel che non c'è si fa senza: la provincia dimenticata e il coronavirus

Ci sono città di confine, dall'identità sfumata, talmente sfumata che anche i migliori allievi  di geografia fanno fatica a collocarla.

Una di queste è Piacenza, amministrativamente collocata in Emilia Romagna, ma organizzativamente legata alla Lombardia e a Milano in particolare, culturalmente crocevia di culture diverse. Questa identità sfumata generalmente non le arreca danno, salvo quando accadono emergenze epocali come quella del coronavirus.

Piacenza, pur trovandosi a poco più di dieci chilometri da Codogno -  essendone di fatto la città capoluogo di riferimento, più di Lodi -  non è stata messa subito in zona rossa, in quanto amministrativamente collocata in un'altra regione, l'Emilia, non ancora toccata dal coronavirus. Nonostante che, a negozi chiusi nei primi giorni del lockdown di Codogno e dintorni, quasi tutti gli abitanti del cosiddetto "basso lodigiano" si fossero riversati nei supermercati piacentini, i più vicini chilometricamente.

Inoltre è ormai probabile che l'epicentro dell'epidemia sia stata proprio Piacenza, con un "paziente uno" ricoverato in una clinica privata nella città in gennaio. L'epicentro italiano potrebbe essere quindi proprio Piacenza.

Eppure questa città, così martoriata, che in marzo ha subito circa cinquecentocinquanta decessi in un mese per coronavirus, è poco considerata sia dai media e sia, soprattutto, dalla politica, proprio perché in mezzo a due regioni che di questa epidemia hanno avuto esperienze diverse. Lombardia ed Emilia, appunto. Percentualmente ha subito più decessi di Bergamo, ma è come se fosse invisibile, come se nessuno se ne accorgesse veramente.

Un esempio. Il test "drive through", già provato con successo in Corea del Sud e in Australia, che prevede l’esecuzione del tampone direttamente alla persona rimanendo a bordo della propria automobile, per fare un esempio, è stato già testato nelle città emiliane doc come Bologna e Reggio Emilia e non a Piacenza dove il disastro dei contagi e dei decessi è più che doppio. Perché?

Piacenza è una città a sé, schiva, orgogliosa, abituata a stare ai margini. Né emiliana né lombarda. E pensare che ha tanti figli illustri, in primis il nostro direttore Francesco Alberoni, Giorgio Armani e Marco Bellocchio, ma pare che questo non basti.

Per fortuna che la cittadina farnesiana, abituata a "far da sola", ha ideato un sistema molto utile e meritorio per rimediare ai tanti chiusi in casa in città e soprattutto in provincia con i sintomi della malattia, che magari per paura di morire da soli in ospedale, preferiscono il fai da te in casa.

Un gruppo di medici intraprendenti, capitanati dall'oncologo Luigi Cavanna, fautore dell'iniziativa, viaggiano  da alcuni giorni nella provincia di Piacenza, in coppia (medico e radiologo), per andare a domicilio a fare gli esami necessari a capire la gravità delle situazioni domiciliari. Eseguono tampone nasale, verifica dell'ossigenazione del sangue con saturimetro e se necessario anche ecografia toracica. Sono in trenta per il momento. Quindici "Starsky e Hutch", che sopperiscono ai pochi posti liberi in ospedale, alla difficile situazione di una città che non è né in Emilia né in Lombardia né in Liguria.

Inoltre l'iniziativa di Luigi Cavanna e dei suoi "detective" apre la via a una nuova frontiera della medicina, quelle delle cure domiciliari con strumenti snelli, come ecografi quasi "portatili" che possono essere utili nella cura di anziani che a fatica lasciano la loro abitazione. Le persone visitate dall'equipe sono di solito segnalate attraverso un'anamnesi medica che avviene telefonicamente, per cui arrivano successivamente a domicilio i due esperti.

Alla base c'è un contatto telefonico o via web con un medico, o di base o di altra struttura ASL, che fa partire la segnalazione.  Questa procedura potrebbe essere molto utile nel futuro prossimo: con la "telemedicina" infatti si potrebbero fare diagnosi veloci in tutti i casi in cui non c'è bisogno di un contatto fisico con il medico (auscultazione, ad esempio) per poi provvedere con le cure a domicilio. L'esperimento piacentino, finora di scarso rilievo numerico ( servirebbero almeno il quintuplo delle squadre impiegate in questa attività e un numero di tamponi adeguato), potrebbe essere una guida per la medicina del futuro.

Un'idea, uno sforzo di fantasia, per un territorio abituato, per forza, a "cavarsela da solo". Un'idea che ha già attirato l'attenzione della stampa internazionale, che propone di adottarlo ovunque, e che sta prendendo il nome di "metodo Piacenza". Da una cenerentola d'Emilia e d'Italia è nata un' iniziativa che il mondo ammira.

Perché le ristrettezza aguzzano l'ingegno. O, per dirla come il fondatore del CERN,  lo scienziato Edoardo Amaldi, altro figlio illustre di questa terra dimenicata: "A Piacenza, di quel che non c'è si fa senza"

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A Piacenza di quel che non c'è si fa senza: la provincia dimenticata e il coronavirus

Giusy Cafari Panico

Giusy Cafari Panico, caporedattrice (email), laureata in Scienze Politiche a indirizzo politico internazionale presso l’Università di Pavia, è studiosa di geopolitica e di cambiamenti nella società. Collabora come sceneggiatrice con una casa cinematografica di Roma, è regista di documentari e scrive testi per il teatro. Una sua pièce: “Amaldi l’Italiano” è stata rappresentata al Globe del CERN di Ginevra, con l’introduzione di Fabiola Gianotti. Scrittrice e poetessa, è direttrice di una collana editoriale di poesia e giurata di premi letterari internazionali. Il suo ultimo romanzo è “La fidanzata d’America” ( Castelvecchi, 2020).

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