La socializzazione al successo

11 Marzo 2019



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Individuo e socializzazione

Sin dalla nascita, noi siamo plasmati dalle norme, dalle credenze e dai valori della nostra società. Sono i nostri genitori, la scuola e i vari gruppi con cui entriamo in contatto, a fornirci i modelli da imitare e con i quali identificarci per interiorizzare le norme che la società ci richiede. Questo processo, noto come socializzazione, però, non è mai perfetto, perché noi non siamo soggetti passivi. Fra chi educa e chi apprende vi sono sempre una reciproca interazione, una negoziazione, una modalità individuale di elaborazione di ciò che ci viene trasmesso. Ed è questo a determinare la nostra personalità.

Ma quanto pesa l’influenza della cultura su chi siamo, sui nostri desideri e sui nostri valori? In altre parole, quanta parte della nostra personalità è forgiata da variabili esterne?

 

La socializzazione al successo

La risposta possiamo estrapolarla dalle parole di Robert Merton  (1910-2003): “dire che la mèta del successo monetario è caratteristica della cultura americana è dire soltanto che gli americani sono bombardati da ogni parte da precetti che affermano il diritto e il dovere di tenere ferma questa mèta anche a costo di ripetute frustrazioni. Rappresentanti influenti della società rinforzano tale valore culturale. La famiglia, la scuola, e il luogo di lavoro – i maggiori enti che formano la struttura della personalità e trasmettono miti comuni tra gli americani  (…)”, agiscono congiuntamente perché questo precetto venga continuamente rinforzato senza essere messo in discussione.

Nella sua analisi, Merton rileva nella “socializzazione al successo” una delle caratteristiche peculiari e più radicate della cultura americana. Il grande mito del Sogno Americano (l’idea del self made man, della mobilità sociale individuale, dell’ascesa sociale ed economica), da secoli influisce sull’idea di felicità e di realizzazione personale dell’individuo e sul valore e sul giudizio che gli altri formulano su di lui.

 

Un esempio: L'epizootica

È dunque una gabbia a maglie strette, che spesso può portare all’incapacità di uscirne, come ci mostra un racconto di Kurt Vonnegut – L’Epizootica – in cui l’arresto dell’ascesa sociale lavorativa ingenera ripercussioni su tutte le altre sfere della vita: la famiglia, i figli, la stima di sé.

Nel racconto, una compagnia di assicurazioni sulla vita indaga sul drastico e repentino aumento del numero di suicidi tra manager relativamente giovani (quarantasette anni), con moglie e figli e con una vita esteriormente perfetta. Si tratta di un’epidemia che presenta meccanismi ricorsivi. Sondando le motivazioni che spingono al suicidio questi uomini, si giunge ad una spiegazione paradossale. Di fronte all’eventualità di non poter più ascendere socialmente ed economicamente, e avendo investito ingenti quantità di capitale in case, beni di lusso, scuole private e club sportivi esclusivi per i propri famigliari, l’idea di doverli privare di un alto livello di vita li spinge a darsi la morte. Questo perché le mogli possano incassare la milionaria assicurazione sulla loro vita e i figli non debbano rinunciare ai privilegi che danno per scontati.

 

L'identificazione nel ruolo

È l’eccessiva identificazione con un’immagine idealizzata di sé a paralizzarli, a renderli incapaci di uscire dal ruolo. Sono uomini nati per brillare, per essere sempre ai vertici, che hanno fatto del successo la loro ragione di vita. L’impossibilità di riuscire a sopportare il peso della disistima da parte dei figli e della moglie, di perdere la propria posizione nella società, del fallimento – come genitore, come marito, come lavoratore, - ma anche l’amore e la responsabilità per chi resta non lasciano loro altra soluzione che quella di suicidarsi.

Nel dialogo finale del racconto, tra il medico e il giovane assicuratore, si esplicita la visione distopica della realtà che stanno analizzando:

“Gli uomini a senso unico: progettati solo per salire” disse Breed.

“E le loro mogli a senso unico, e i loro figli a senso unico” disse il dottor Everett. “Dio santo…” disse, andando alla finestra a guardare l’inverno di Hartford “la principale economia di questo paese ormai è morire per campare!”

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Federica Fortunato

Sociologa e professional coach. Collabora dal 2000 con l’università IULM, ha tenuto corsi presso l’Università Statale degli Studi negli insegnamenti ad indirizzo sociologico e ha collaborato con il Politecnico di Milano. Nel corso degli anni ha partecipato a numerose ricerche universitarie, con l’ISTUR presso committenti privati e istituzionali, con il Centro Sperimentale di Cinematografia e presso realtà aziendali italiane nel settore del lusso.

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