L'ultimo canto
"Canta meglio di come scopa". Basterebbe questa frase dell'allora Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy per raccontare la violenza, la brutalità che sta dietro al mito di Marilyn Monroe. Nel romanzo Blonde di Joyce Carol Oates, compare questo aneddoto sul rapporto tra l’attrice e il Presidente. Dopo la famosa festa di compleanno, in cui Marilyn cantò "Happy Birthday, Mister President", con voce incerta e alterata dai molti tranquillanti e dall'alcol, il Presidente, in privato , disse la frase riportata qui all’inizio. "Canta meglio di come scopa". Queste ciniche e crudeli parole sono la rappresentazione della forza distruttiva che il potere può comportare, disumanizzando l'amore e, più in generale, i sentimenti. E Marilyn ne fu vittima, forse inconsapevole.
Amore senza amore
In un altro libro uscito nel 2007, Ultimi giorni, ultima notte, edito in Italia da Bompiani, lo psicanalista francese Michel Schneider ci offre alcuni riflessioni importanti sulla vita di Marilyn. Racconta la storia di una follia passionale che si scatenò tra la paziente Marylin e il suo quarto psicanalista, il dottor Ralph Greenson a cui l’attrice si rivolse per curare le sue profonde angosce. Fu "un amore senza amore", come lo descrisse Greenson . Quello che, in termini tecnici, si può definire un amore di transfert. Lo psicanalista americano contravvenne a molte regole del rapporto analitico, regole per altro da lui teorizzate nel testo magistrale "Tecnica e pratica psicoanalitica”. Tre o massimo quattro sedute settimanali, mantenimento di una “giusta distanza” relazionale tra paziente e analista, assenza di incontri al di fuori delle sedute.
In realtà la relazione tra Marilyn e Greenson consisteva in sedute spesso giornaliere, talora anche più di una nella stessa giornata, oltre a lettere e telefonate notturne da parte della paziente. Marilyn cominciò a frequentare regolarmente la casa e la famiglia dello psicanalista, divenendo amica sia della moglie che dei loro due figli. Greenson divenne anche consulente professionale dell’attrice, tanto che le Case di produzione per cui Marilyn Monroe lavorava, si avvalevano delle sue consulenze, remunerandolo nella veste di manager. Greenson giustificò tutto questo in funzione della grave patologia psichiatrica di cui soffriva la paziente.
Questa modalità di rapporto non fu terapeutica e la paziente e l'analista si ritrovarono in una reciproca ed eccessiva dipendenza. Da una parte c’era il potere di seduzione che Marilyn non riusciva a vivere se non in quanto icona hollywoodiana e mai nella vita reale, dall’altra Greenson che voleva incarnare la figura del "padre buono e ideale”, vale a dire di "un genitore sempre accogliente” nei confronti della sua paziente. Com’è noto, l’attrice fu una bambina abbandonata dalla propria madre, con un padre di fatto sconosciuto, abusata da patrigni delle varie famiglie affidatarie, che non si sentiva compresa neppure dall’ultimo dei suoi mariti, lo scrittore Arthur Miller.
L'ultima notte
Non ci fu un lieto fine. Il racconto dell'ultima notte di Marilyn vede l'intervento di Greenson al domicilio dell'attrice. A chiamarlo fu la governante. Per tentare di rianimarla le praticò un'iniezione intracardiaca di adrenalina. Come sappiamo, il tentativo risultò inutile, se non fatale e pieno di interrogativi. La vera Marilyn, quella poco nota al grande pubblico, rimase nascosta dietro al mito della dea hollywoodiana. “La mia sola maniera di essere qualcuno è stata quella di essere qualcun altro. È per questo che ho voluto fare l’attrice", diceva di sé. Dopo la morte della sua paziente Greenson iniziò un lento declino, soprattutto sul piano professionale. Quelle sedute non salvarono Marilyn.