"Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire cosa vogliono l'uno dall'altro".
Bisogna ritornare al dialogo di Platone, il Simposio, in cui il filosofo greco esponeva la sua teoria per comprendere che cosa significhi amare e innamorarsi (Platone, il Simposio 192 c-d).
Di che cosa si parla in questo passaggio del discorso del commediografo Aristofane durante il Simposio? Dell'incontro amoroso? O dell'amore? O, ancora, della relazione amorosa? Non sappiamo quale sia la giusta definizione di una condizione così vaga, così incerta come quella che ci coglie quando ci stiamo innamorando o ci sentiamo innamorati. Ma allora, che cosa ci insegna l'amore? Che lo stato d'animo che subentra in noi è un enigma? Che questo ci lascia dubbiosi tra felicità e sgomento e che ci rende incapaci di comunicare? Incapaci di dire che cosa vogliamo all'altro e a noi stessi, se non esprimendoci con "vaghi presagi come divinando da un fondo enigmatico e buio"?, come spiega sempre Platone tramite le parole di Aristofane durante il Simposio. In sostanza questi vaghi presagi rappresenterebbero uno dei principali insegnamenti dell'amore. Forse si tratta di una sensazione, ovvero la paura di poter conoscere una parte di noi mai affiorata, una parte sconosciuta che non sappiamo come gestire e che quindi può renderci inquieti.
Il presagio è un'intuizione, un presentimento che qualcosa può accadere sia nel bene sia nel male. Non a caso Platone scrive di "vaghi presagi", usa un'espressione che ci porta a pensare alla vaghezza che, oltre al concetto di imprecisione, di incertezza, contempla anche quello di grazia e leggiadria. Quando siamo innamorati forse capiamo inconsciamente che, grazie all'Altro, possiamo aver accesso alla nostra parte più profonda e sconosciuta con la possibilità di essere visti e riconosciuti. Il poeta Rimbaud, in una sua poesia, scrisse: "Mi hanno incontrato e non mi hanno visto". È una perfetta sintesi per definire quando non veniamo capiti e considerati per quello che siamo, e quindi non si prospetta alcun amore.
Anni fa, un paziente mi raccontò di una sua esperienza che potremmo definire di vago presagio amoroso. Aveva da qualche tempo conosciuto una giovane donna che gli piaceva. Un giorno si fermò a parlare con lei. Improvvisamente, si trovò con la mano nella mano di questa ragazza. Si guardarono senza parlare. In quel momento, mano nella mano, per lui," fu come se il tempo si fosse fermato". Mi disse: "Era come se fossi entrato in un'altra dimensione. C'era solo una presenza di sguardi, che annunciavano una situazione di presagio, al momento confuso, ma conturbante". Dopo quell'incontro, l'idea di un amore che sarebbe durato "per sempre" cominciò ad accompagnarlo durante le sue giornate. E poi si tradusse, tra alterne vicende, in una storia.
In pratica, quando ci innamoriamo, è come se sentissimo che potrebbe esserci la possibilità di trovare la felicità, correndo il rischio di andarla a cercare, di non trovarla, di trovarla, ma anche di perderla. Questa ricerca, possibile solo con la presenza dell'Altro, è un movimento verso l'ignoto, già al momento dell'incontro, quando l'Altro è ancora uno sconosciuto. Dispiegare al massimo il meglio di sé è necessario per immergersi lungo questo cammino. È un'impresa ardua e vasta per un individuo. Al punto tale che una parte della persona può sentirsene assorbita completamente (…"ho perso la testa per.. ").
Un'altra paziente mi raccontò della sera stessa in cui conobbe il suo futuro marito; vedendolo per la prima volta pensò: "Eccolo qui!", come se l'avesse riconosciuto. Al ristorante, dove non erano soli, lui aveva imburrato una tartina che le offrì. Guardandolo e sentendolo parlare lei fantasticò di poter avere un figlio da quest'uomo. Cosa che la sorprese e la turbò. Lui stesso, anni dopo, ricordò in una lettera che quella che era stata una sera in cui "non era successo nulla ma era accaduto tutto". In questo caso, malgrado la normalità e la semplicità dell'incontro, entrambi furono travolti da un inaspettato presentimento.
C'è poi un altro caso. Ricordo quando una giovane donna in terapia mi parlò di un momento preciso in cui comprese di amare quello che al momento era soltanto un caro amico. Lo guardava condurre l'automobile, fu presa dal dettaglio del suo polso e della sua mano appoggiata al volante; una commozione si presentò al suo spirito, si sentì invadere da una consapevolezza inusuale di qualcosa che non c'era ancora ma si stava manifestando in modo misterioso. Si sposarono ed ebbero una figlia.
L'esperienza del presagio amoroso, non è cosa pacifica e lineare, ma appunto, una sensazione difficile da definire, inquietante, manifesta e arcana allo stesso tempo. L'incontro con l'Altro apre una breccia, e ne nasce una "colluttazione", un moto, che mette scompiglio, disordine e che infine agita. Non c'è la garanzia di una riuscita, ma un istinto ad avvicinarsi a un punto importante del proprio mondo interiore, a dirigersi verso un senso di sé profondo, messo a nudo, e in gioco, grazie all'incontro con l'Altro.
È una sfida che ci renderà individui più consapevoli dei nostri limiti e delle nostre potenzialità. La vaghezza del presagio è da esplorare, per vederne il chiarore ma anche le ombre.
Assecondare i presagi vuol dire riconoscerli e consegnarci alla nostra parte più ignota, irrazionale, quella su cui non abbiamo controllo. Alla mia domanda di essere più esplicita, una paziente, raccontando un suo incontro sentimentale, mi disse di aver sentito un momento di completezza, una sospensione magica. Lo sguardo dell'altro era promessa di "una profondissima quiete", a cui era per lei difficile credere, poiché si sentiva invasa anche da una "profondissima inquietudine".
L'amore è un maestro molto esigente, che non spiega e spesso parla un linguaggio oscuro e imprevedibile.
Platone l'aveva capito più di 2000 anni fa.