Bruxelles o l’inorganico attuale
A Bruxelles le vie odorano di burro, nebbia e uovo. Le pasticcerie francesi vendono croissant senza farcitura e tra le birrerie spuntano non rari chioschi di patatine fritte e guarniti gaufre. Una strana varietà di negozi si propone vitale ai passanti (cappelli, cartoleria, mobili), in direzione opposta al livellante contesto italiano. Le praline e le tavolette qui sono un’eccellenza, ma chiedere al banco una cioccolata calda comporta l’arrivo di un bicchierone di latte che sembra Nesquik.
Siamo a Bruxelles, città antica la cui fioritura non si deve che all’ultimo secolo e mezzo, come rispecchiato dalla congerie edilizia confusa e imitativa. Complessi nobili di palazzi d’alta linea posano assediati da una legione di casine alte e strette, affettate e smaganti come lucerne nella nebbia. In questi borghi la classicità è un’allure, un profumo di bottega comprato a caro prezzo per il nome in etichetta, poi assaporato e dimenticato, lasciato esalare sui davanzali. Ogni statua pareva morire.
Le case non hanno uno stile. Sono degli assoluti. Infilati uno dopo l’altro come fette di pane in una pietanza elaborata. É usuale che un edificio non somigli a quello che lo avanza, e il seguente al successivo, in una serie circolare di esperimenti senza principio o coda. Capita a volte che due pareti attigue non corrispondano in altezza, lasciando esposta una porzione di muro completamente nuda. Chi sa di chi è lo screzio maggiore: della piccola a cui sovrastano le sconcezze della grande o della grande a cui la piccola scopre la tozza muratura?
Qui l’archetipo del rettangolo informa le superfici e le modella alla sua musica. I semicerchi delle volte, le cimase orlate, le capricciose periferie di una casa d’angolo restano esuberanze, che il massiccio cornicione richiama all’ordine. Quando una rientranza panciuta o una mezzaluna fanno capolino tra le linee nettissime della parete, il gregge degli spigoli alza la voce. Tutto si attenua, si mitiga e comincia a piovere - tempo ladro!
L’elemento che esteticamente regge queste abitazioni è la finestra; il linguaggio dell’architettura parla il dialetto del vetro e del mattone. Le case esistono per la facciata, la facciata per le finestre. Sempre in numero pari, simmetriche, come le tavole che si danno ai bambini quando imparano le tabelline. Senza dichiarazione di intenti che non sia il transitorio appagamento di un’accoglienza borghese, i palazzi confidano ai passati l’imbarazzo per la loro inappellabile simmetria.
L’inorganico attuale, un gioco di trasgressione reattiva che ho incontrato in tutta Bruxelles. La città si anima di uno splendore immediato e intenso, che ammalia, s’assopisce e invecchia prima che sia diventato maturo. Come il soliloquio di uno sbronzo.
Identità diverse convivono in uno spazio relativamente stretto. L’etnia fiamminga odia la francese, la francese la fiamminga e i tedeschi restano in disparte, in una regione che è poco più che la Valle d’Aosta. Tutto è scritto in più lingue: a volte francese e fiamminga, a volte tedesca e francese, a volte fiamminga e inglese. La città è divisa in municipalità, tra le quali cambiano le leggi e gli orari di funzione, cosa che i bruxellesi odiano, ma a cui non sanno rinunciare.
La corrente tedesca domina la verticalità; la francese regna sull’orizzontale. Latamente, il belga è rustico, ribaldo e assolato; assialmente è individualista, disciplinato e operoso. In tutto ciò che fa resiste una sfumatura fiamminga, che trasfigura il colore dell’azione come le note di basso continuo su una melodia secentesca. Per quanto possa apparire controintuitivo e all’apparenza arbitrario assegnare una direzione alle partizioni culturali, non ho dubbi: ho visto le strade parlare francese e i tetti rispondere tedesco; il fiammingo vociava qua e là, remoto e presente, fischiante.
Il Belgio, terra di confine, striscia mediana tra Francia e Germania. Legame, non luogo. Qui tutto sembra trasportato a valle da un fiume storico impetuoso, che alla foce si rivolta, si contorce, si sofferma, diventa incognitamente melma stagnante in un chissà dove al di sotto del mare. Dove non è la mia casa.