Nel 2005 un ragazzo si inventò quello che dopo una decina d’anni sarebbe diventato il social network più famoso della storia, Facebook.
L’idea nacque dal desiderio di mettere in contatto le persone che frequentavano una stessa università ma che sembravano non avere più troppo il coraggio di parlarsi. Questa piccola scintilla antropologica ha dato il “la” a un processo che ormai dopo vent’anni potremmo quasi definire irreversibile. Infatti da quando ci è stata data la possibilità di approcciare una persona da dietro uno schermo le nostre capacità di comunicazione si sono ridotte in maniera palese e per quanto mi riguarda sempre più preoccupante.
l’emoji del fuoco
Ma prima di arrivare alle dating apps, protagoniste di questa mia analisi, vorrei fare prima una tappa intermedia e parlare di quello che è stato un po’ il passaggio chiave che ci ha fatto capire che i social network non erano arrivati solo per rivoluzionare il concetto di amicizia ma che avrebbero un giorno anche stravolto il concetto di innamoramento. E come vedremo, non lasciava presagire niente di buono. Un giorno infatti incontrai una mia amica e questa mi confessò una sua frequentazione con un personaggio dello spettacolo abbastanza famoso, un uomo di una decina d’anni più grande di lei e che viveva nella metropoli accanto alla nostra cittadina. Le chiesi come diavolo avessero fatto a beccarsi frequentando ambienti totalmente diversi e la risposta che lei mi diede accese una vera e propria epifania: “ha risposto alla mia storia con l’emoji del fuoco”. Non era la prima volta che sentivo parlare di un approccio simile ma l’avevo sempre diciamo preso sotto gamba. Il processo irreversibile di cui parlavamo prima stava iniziando a manifestarsi in maniera sempre più palese. Infatti non solo mi sembrava di essere l’unico a non utilizzare questo metodo secondo me un po’ misero, ma avevo anche l’impressione che la gente non ne facesse nemmeno più mistero. Eravamo arrivati al punto dove l’invio di una certa emoticon rendeva sin da subito chiare le intenzioni del mittente: “ti voglio conoscere”.
A questo punto la frittata era fatta e non ci volle molto per arrivare al giorno destinato a segnare le vite e gli innamoramenti di milioni e milioni di persone: nel 2016 infatti arriva in Italia un nuovo social network che guarda caso ha come logo proprio una fiamma come quella dell’emoticon suo predecessore, il suo nome è Tinder e la sua storia sarà una grande lezione per tutti coloro che trattano dei temi di cuore.
L’Italia e il primo approccio con le dating app
La nostra mente impara a leggere le green flag attraverso lo swipe dei bigliettini da visita. Quando scaricai Tinder, nel 2017, mi trovavo in Spagna per motivi di studio e visto che ero appena arrivato stavo ancora lavorando sulle mie abilità linguistiche, sia inglesi che spagnole. Questo faceva sì che le mie conversazioni non fossero delle più accattivanti e scorrevoli e quindi un bel giorno decisi di scaricare quest’app di cui mi aveva parlato qualche sera prima un amico tedesco. A quanto pare loro ci avevano a che fare già da un annetto e in città come Berlino il fenomeno dating apps stava già raggiungendo una massa critica di utilizzatori. Ovvero un numero di utenti tale da rendere l’app funzionale, visto che la forza del servizio in questo caso dipende dallo stesso individuo che ne usufruisce. La Spagna al tempo era ancora indietro sul tema dating e se mettiamo a confronto il modo in cui si approccia un tedesco con il modo in cui si potrebbe approcciare uno spagnolo capiamo anche il perché.
Lo swipe
Mi ricordo che la cosa che mi colpì subito molto fu la questione dello “swipe”: infatti tutte le dating app ci propongono una sfilza di profili che ci appaiono uno dopo l’altro come bigliettini da visita, sta a noi poi mandare a destra o sinistra il “bigliettino” per dire se ci piace la persona che stiamo vedendo in foto oppure no. Il punto è che tutto questo appunto viene fatto con un semplice gesto del pollice sullo schermo e in maniera tanto rapida da divenire presto alienante: tu si, tu no, tu si, tu no, sì, sì ecc…
Si potrebbe scrivere un libro anche solo su questo gesto: sul come la nostra mente si abitui a processare una serie di informazioni in un arco di tempo davvero breve. E la cosa che mi sconvolse è che tale processo veniva molto facilmente ottimizzato dalla mia mente che in pochi giorni si era già adattata all’idea di poter decidere se una persona potesse piacermi o no nell’arco di pochi secondi e basandomi solo su un paio di foto.
Cercando di fare l’avvocato del diavolo potrei voler pensare che questo acclimatamento sia quasi naturale visto che non ho mai avuto la sensazione di star cambiando i miei gusti in base al modo in cui una persona mi veniva presentata. Anzi ebbi come l’impressione che la mia mente imparasse a leggere i segnali non più tramite i dettagli della conversazione bensì da quelli delle foto stesse: se vedevo una foto in barca a vela o in cima a una montagna per esempio mi sentivo naturalmente portato nel cercare di approfondire questa conoscenza; così come scappavo a gambe levate quando mi compariva la foto di qualcuno con un calice di brut in mano alle terme di Milano. Capii che la lucidità con cui decidiamo se potremmo stare bene con una persona o no, non dipende tanto da quanto veloce si prende la decisione ma piuttosto su quanto bene si leggano certi segnali. Al giorno d’oggi, un segnale negativo che ci indica che probabilmente non staremmo bene con una certa persona è chiamato “red flag”. Quello che invece la nostra mente fa su un’app come Tinder è imparare a leggere le green flag proprio attraverso delle foto e non più attraverso una conversazione o comunque un dialogo come è sempre successo per millenni. La sostanza però secondo me non cambia. È un po’ come spegnere la luce, annullare il senso della vista e far sì che la mente si concentri naturalmente sui sensi che possono tornarci più utili in quello specifico caso.
Capii che il dover scegliere un partner attraverso una foto non sarebbe stata la rovina del romanticismo globale e anzi, anni dopo realizzai come questo piccolo sacrificio ci apra dall’altra parte una serie infinita di possibilità. Sarà una consapevolezza felice ma che non durerà molto. Ma ne parleremo più avanti.
Il match -Hey, hai fatto match con qualcuno!
Dopo avervi parlato di “swipe” ora è arrivato anche il momento del “match”. Due parole veramente brutte in un arco di tempo così breve ma prometto che in realtà la via crucis finisce già qui: una volta fatto “match” nessun inglesismo ci rovinerà più l’atmosfera romantica.
Mi ricordo di come mi sentivo a vedere le prime notifiche dell’app che mi diceva: “hey, hai fatto match con qualcuno!”. All’inizio era un po’ alienante ma possiamo dire che lo fosse proprio un po’ tutto il circo, soprattutto per un ragazzo che ne sapeva poco anche sulle relazioni normali ma che con i suoi 23 anni voleva mettersi ben pochi freni alla scoperta di quello che c’era là fuori.
Se mi ricordo il primo match? Assolutamente no. Ma non perché io sia una bestia insensibile quanto perché molto probabilmente io col mio primo match non ci ho mai parlato. Questo tema ci obbliga a fermarci un attimo e introdurre quella che è una sorta di legge matematica che regola il numero di interazioni su tinder:
su 300 profili che ci vengono proposti noi metteremo 100 likes, di questi solo 20 verranno corrisposti e faranno quindi match. Ora, ammesso che noi scriviamo a tutti e 20, dobbiamo comunque considerare che meno della metà potrebbe risponderci e che delle 7-8 conversazioni che avremo solo una o massimo due porteranno effettivamente a un incontro.
Relazionarsi con i nostri potenziali futuri compagni di coppia
Sviscereremo più avanti ogni singola parte di questa formula visto che tutti gli elementi che la compongono sono di fatto ognuno un capitolo interessante, intrigante e attorcigliato del nostro racconto su come funziona questo nuovo modo di relazionarsi con i nostri potenziali futuri compagni di coppia.
Ma per adesso torniamo al primo match e cerchiamo di assimilare l’idea di come prima di poter iniziare a parlare con una persona io abbia dovuto guardare e “giudicare” quasi 300 profili. 300 persone tutte diverse e ognuna con la loro storia.
Certo molte di queste persone erano tanto diverse da me e quindi non è stato difficile decidere mentre altre sembravano come chiamarmi dall’altra parte dello schermo ma ahimè, per quanto io possa aver messo “like” ad ognuna di loro comunque molte non hanno mostrato lo stesso interesse.
E devo dire che ci ho messo un po’ per accettare queste cosa: ovviamente non il fatto di essere sempre ricambiati perché questo succede e deve succedere anche perché se no sarebbe un bel casino. Io parlo di accettare il fatto che ci sia una persona che ha le tue stesse passioni, che mette le foto alla mostra del tuo pittore preferito, che ti piace per come appare in figura e che da quel che vedi dall’ultima foto studia pure nella tua stessa città ma che comunque non pensa che questo sia abbastanza per volerti conoscere. È uno dei momenti in cui non bisogna farsi scoraggiare, capiterà di mettere un like e sperare che lo schermo si illumini e ci mostri un match che però non arriva. Non ci si deve buttare giù perché le ragioni di un “no” possono sempre essere molteplici: normalmente sono tutti validi sia che per i social network che per gli incontri nella vita reale ma anzi, se vogliamo spezzare una lancia a favore di Tinder, possiamo dire che un no’ su quest’app può spesso essere causato dal semplice inutilizzo della stessa: vuol dire che se un nostro like non diventa un match può essere sì perché per qualche ragione non piacciamo a chi a sua volta ci giudica, ma anche perché magari quella persona si è semplicemente fatta un profilo Tinder che però non usa e controlla mai.
Sulle dating apps non mentire mai
Una volta che abbiamo quindi capito che i due di picche si prendono ovunque ora vediamo di mettere giù quella che è un’altra regola d’oro delle dating apps come Tinder: non mentire mai. Non mi riferisco alle bugie che si dicono ogni giorno in tanti rapporti a prescindere che questi nascano su Tinder o meno: “tranquilla ero al calcetto, ho finito tardi la riunione, sono andata a fare shopping con Carla, l’idraulico non ha voluto niente”.
La regola si riferisce invece al mentire sulla propria persona o sul proprio aspetto: dobbiamo capire che non abbiamo nessun diritto di approfittare di uno schermo per attrarre una persona verso qualcosa che di fatto non siamo. E questo serve sia a tutelare il diritto di libera scelta del nostro interlocutore ma soprattutto serve anche a noi per evitare di trovarci davanti a una cruda reazione al momento del primo incontro.
È un tema psicologico piuttosto pesante quello del non accettare alcuni tratti di noi stessi tanto da arrivare a nasconderli tramite lo schermo, come se non ci si dovesse poi incontrare per davvero.
Ma per restare sul leggero e tagliar corto io mi limiterei a riportare quella che potrebbe essere una regola non scritta: se ti piacciono le acconciature alla lenny kravitz non ti fidare di chi ha solo foto col cappello, se invece ti piacciono le silhouette da Raffaella Carrà non ti fidare di chi mette solo le foto della faccia.