Per riflettere dobbiamo stare fuori dalla frenesia della vita. Per starne fuori paradossalmente bisogna entrare altrove. Ci sono spazi quieti, come boschi, chiese e persino musei.
Nel comune di Lissone (MB) c’è uno di questi luoghi, il museo d’arte contemporanea; il MAC -come il noto computer amato dai creativi-. Lissone è la città nella quale ho fatto i miei studi liceali, ho bellissimi ricordi di questa città della provincia lombarda operosa. Al muso ci sono andato in visita un mattino infrasettimanale.
Ho saputo che ospiterà il Premio Lissone Design che è nato con l’obiettivo di sostenere e promuovere le potenzialità dei creativi, artisti e designers. Non me ne sono affatto stupito. Lissone ha storicamente un ruolo culturale, economico e commerciale nelle produzioni dell’artigianato di design. Anche nella scuola nella quale studiavo si respirava questa cultura dello spazio e della progettazione. C’era una grande falegnameria, c’erano aule grandi, spesso dislocate in diversi edifici nella città, prevalentemente dall’aspetto di vecchie fabbriche (già vecchie per uno che ha fatto le scuole superiori alla fine degli anni ’80 del secolo scorso), c’erano grandi disegni e progetti appesi alle pareti, ogni anno si organizzava un concorso per lavori di disegno e progettazione di oggetti; tutti gli studenti partecipavano.
Lissone era allora disegno, design, creazione di spazi e oggetti. Il MAC parla di questo, anche oggi.
Lo spazio espositivo si dipana su 4 piani, 3 dei quali fuori terra e luminosi. Uno è sotterraneo, ma ciò che sta sotto è fondamentale, radicale e necessario anche ad un albero per spaziare nel cielo. Ci sono sezioni espositive dedicate a permanenti anche se quasi tutto lo spazio è aperto ad ospitare installazioni ed opere, che arrivano, si fermano un poco a farsi conoscere e poi tornano a girare, come ogni buon messaggio.
In particolare è apprezzabile l’uso che nel MAC si fa dello spazio.
Le opere hanno tanto intorno, non sono affastellate o disposte in spazi angusti. Il MAC rispetta il principio della distanza, che abbiamo imparato a conoscere in pandemia. Una distanza che è rispetto reciproco ed invito ad avvicinarsi dopo essersi reciprocamente guardati e conosciuti. Una distanza che ti permette di vedere le cose da molte angolazioni, di vederle senza che altro interferisca “sporcando” il tuo campo visivo nella coda dell’occhio. Impossibile annoiarsi durante la visita. Forse la noia di certe mostre dipende anche da un messaggio compresso in uno spazio troppo piccolo, così piccolo da far sembrare ogni cosa, la ripetizione di se stessa. Una noia.
Quiete per riflettere, spazio per osservare, sono dimenticati quando chiudiamo il nostro sguardo su uno schermo da 5.5 pollici. Quiete e spazio sono i presupporti progettuali degli artisti, degli artigiani, degli artefici di un modo di vedere lo spazio umano come luogo bello perché rende dignità a tutto ciò che ospita.