“Inclinazioni culturali nella società contemporanea, dal follemente corretto alla cultura woke”

7 Marzo 2025



Ritratto stilizzato di uomo con sfondo rasta

Negli ultimi anni, il dibattito culturale è stato dominato da due termini spesso al centro di polemiche e discussioni ridondanti: "politically correct" e "cultura woke".

Il politically correct è un fenomeno culturale e linguistico nato negli Stati Uniti tra gli anni '60 e '70, radicatosi inizialmente nei movimenti per i diritti civili, femministi e antirazzisti. La sua origine, però si deve essenzialmente alla volontà di promuovere un linguaggio e un comportamento che evitino espressioni o atti considerati offensivi o discriminatori nei confronti di gruppi sociali,spesso emarginati. La cultura woke,invece, nasce  negli Stati Uniti tra gli anni '30 e '40 in contesti legati alla consapevolezza delle problematiche nate dalle questioni razziali. È vero però, che inizia a propagarsi con una risonanza maggiore attraverso il movimento Black Lives Matter (BLM) nel 2013.

Inizialmente nati per promuovere inclusività e rispetto, con il tempo hanno contraddistinto una società sempre più focalizzata sull’egoismo primario, sulla distorsione del giusto e dello sbagliato, ricca di esclusione ed emarginazione.

 

Ma dove ci sta portando il politically correct?

In quale direzione stiamo andando?

Sono domande che, nel caos quotidiano di opinioni e schieramenti, vale la pena porsi, è evidente che ormai sia tutto da assimilare in concetti puramente politici.

La società si è trasformata rapidamente, e parole come inclusività e rispetto sono diventate centrali nel dibattito pubblico. Ma siamo sicuri di aver trovato un equilibrio tra il diritto di non essere offesi e la libertà d’espressione? Cosa significa realmente essere “politicamente corretti”? E qual è l’impatto della cultura woke sulle nostre vite?

 

Riflettiamo su ogni singola domanda, senza giungere a conclusioni affrettate, dettate dall’emotività e da ciò che, perché la linea è sottile tra il limite e il limitarci. Come riporta il noto linguista, Massimo Arcangeli, «Con la scusa dell'igienizzazione verbale e del suo verbo "progressista", proclamandosi portavoce di valori etici da diffondere ovunque, il politicamente corretto intenderebbe cancellare dalla nostra memoria i segni delle offese [...]Ma proprio per questo il politically correct rischia di trasformarsi in una pericolosa deriva culturale da combattere, perché censurare il linguaggio può significare censurare la storia e la responsabilità civile e politica che ne deriva».

 

 

 

Quindi,  bisogna analizzare il fenomeno in profondità, partendo dalle sue origini fino alle sue derive più estreme, come ben evidenziato da Luca Ricolfi, sociologo e saggista, nel suo libro “Il follemente corretto. L'inclusione che esclude è l'ascesa della nuova élite”.

Il desiderio di creare una società equa, ci mette davanti a delle sfide nuove e invece di affrontarle cerchiamo soluzioni semplici e immediate, come i bambini che corrono dal secondo genitore quando il primo ha imposto delle regole scomode. Rischiamo, così, di creare una nuova terra di esclusi. Come costruire una società davvero inclusiva, senza cadere nell’estremismo ideologico?

La vera inclusione dovrebbe partire dal riconoscimento della complessità dell’essere umano, accogliendo le diversità di pensiero con la stessa apertura riservata a quelle culturali o sociali. Questo richiede dialogo, empatia e soprattutto il coraggio di ascoltare, anche quando le idee espresse sono lontane dalle nostre., ma le idee sono diverse e,soprattutto se si parla di storia, hanno memoria, una memoria che profuma di passato, è giusto cancellare ogni cosa? Un foglio per essere bello deve tornare bianco? Non sarebbe meglio comprenderlo e cercare di trasformarlo in altro?

Il politically correct nasce con l’intento nobile di eliminare dal linguaggio espressioni offensive o discriminatorie. Forse, più che aspirare a una perfezione che esclude, dovremmo accettare che l’inclusione è un percorso fatto di sfumature, compromessi e continua crescita.

Magari i compromessi non ci piaceranno, magari risulteranno scomodi. È evidente come il movimento abbia influenzato nel tempo vari ambiti della società: dall’educazione alla politica, dalla cultura pop ai social media. Tuttavia, come sottolinea Ricolfi, il politically correct ha subito una mutazione che lo ha reso, paradossalmente, un limite alla libertà d’espressione.

Chi potrebbe essere contro un obiettivo così giusto? Chi potrebbe dire di no alla fine di parole oscene e razziste? Eppure, ci siamo mai chiesti se c’è un vero miglioramento del dialogo o, paradossalmente, un soffocamento?

La “mania” del corretto a tutti i costi ha portato a situazioni surreali, come la riscrittura di testi classici, per rimuovere termini considerati inappropriati o la cancellazione di opere d’arte ritenute offensive.

Questo approccio, se da un lato mira a una maggiore sensibilità, dall’altro rischia di creare una società incapace di confrontarsi con la complessità della vita, il dissenso e tutto ciò che risulta contrario al nostro pensiero. L’eccesso del politicamente corretto, può portare a una “neutralizzazione del conflitto”, ovvero alla negazione di differenze reali che, se ignorate, continuano a generare tensioni sotterranee, e rendere gli ambienti sempre più violenti ed esasperati.

 

La cultura woke ha ampliato il raggio d’azione del politically correct, portando alla ribalta temi come l'internazionalità, il razzismo sistemico e l’uguaglianza di genere, ha inoltre stimolato un dibattito globale su questioni come la giustizia climatica, i diritti delle comunità LGBTQ+ e la decolonizzazione culturale, incoraggiando, ulteriormente, un ripensamento critico delle strutture di potere e delle narrative dominanti.

 

Ma quanto di questo movimento è autentica lotta per i diritti e quanto è diventato attuale, in voga?

A partire dagli Stati Uniti, il concetto di "woke", letteralmente “risvegliato”, si è diffuso come sinonimo di consapevolezza verso le ingiustizie sociali.

Originariamente legato alle lotte contro il razzismo e le discriminazioni, il termine ha assunto connotazioni più ampie, abbracciando temi come il femminismo, i diritti LGBTQ+, e l’ambientalismo.

Ma anche in questo caso,  il nobile intento è purtroppo stato travisato, il fine nobile si è terribilmente offuscato.

Il movimento può trasformarsi in una “forma di controllo sociale mascherata da progresso”, dove la paura di offendere prevale sulla libertà d’espressione. Imponiamo un conformismo che non accetta il dissenso, di nessun tipo, nemmeno quello storico.

La libertà individuale è, così, sacrificata sull’altare del consenso collettivo, se volessimo utilizzare un paradosso. La cultura woke è spesso accusata di promuovere un nuovo tipo di “moralismo”, dove il giudizio sociale si trasforma in una gogna mediatica per chi non si conforma ai nuovi standard etici, creati ad hoc. Celebri sono i casi di “cancel culture”, con personaggi pubblici ostracizzati per dichiarazioni o comportamenti ritenuti inadeguati, spesso senza possibilità di difesa, o meglio possono farlo, ma nel momento esatto in cui iniziano le scuse, i social sono già partiti e il treno per il cambiamento di parole è assai lontano. L’inclusione autentica, infatti, non è sinonimo di uniformità, bensì di riconoscimento e valorizzazione delle differenze, anche di pensiero.

 

Il movimento woke si è trasformato in una “caccia alle streghe digitale”, dove la denuncia pubblica, spesso amplificata dai vari social media, porta a conseguenze sproporzionate rispetto all’azione commessa. Il rischio, evidente, di estremizzazione e la tendenza a trasformare il dibattito pubblico in un terreno di scontro, piuttosto che di confronto. C’è sempre un nuovo dissing, ogni giorno abbiamo nuovi scontri digitali gestiti da una manciata di like.

 

Un esempio emblematico negli ultimi anni si è visto con attori e autori di fama mondiale sottoposti alle dure critiche dettate dalla “cancel culture”, un giudizio retrospettivo basato su standard contemporanei altissimi. Questo fenomeno è stato aspramente criticato anche da intellettuali come J.K. Rowling, nata a Yate il 31 Luglio 1965, che ha definito la cancel culture “una minaccia alla pluralità delle idee”, dopo essere stata criticata aspramente per le sue opinioni sui diritti delle donne cisgender, e aver ricevuto svariate minacce di morte. Tutto è iniziato sui social, la scrittrice ha deciso di condividere un post Twitter, dove riportava con sarcasmo, che le donne biologicamente parlando hanno le mestruazioni, e come tali definite donne. Ovviamente, puramente, il suo post Twitter è finito per diventare un manifesto anti-transgender.

Anche Noam Chomsky nato a Filadelfia il 7 Dicembre 1928, in una lettera aperta pubblicata su Harper’s Magazine, ha avvertito, insieme a 150 firmatari, scrittori di fama mondiale, che la censura, anche quando motivata da buone intenzioni, soffoca il dissenso e mina la capacità della società di progredire. «The democratic inclusion we want can be achieved only if we speak out against the intolerant climate that has set in on all sides

Questa situazione ha evidenziato una contraddizione assai deficitaria, un movimento nato per promuovere inclusività può diventare escludente verso chi esprime opinioni divergenti?

È evidente come entrambe le tendenze, il politically correct e la cultura woke, abbiano contribuito a una crescente polarizzazione sociale. Invece di favorire un dialogo costruttivo, sembrano alimentare divisioni, con due fronti opposti che si accusano reciprocamente di estremismo, finendo quindi per non arrivare ad un’ideologia pulita, ma ad un’ideologia sistemica.

Da un lato, c’è chi vede in questi movimenti una necessaria evoluzione culturale verso una società più equa e inclusiva. Dall’altro, chi li considera un pericolo per la libertà individuale e un attacco ai valori tradizionali.

 

Così, il linguaggio inclusivo, il controllo del passato attraverso la cancellazione di simboli ritenuti offensivi, e il monitoraggio dei comportamenti diventano strumenti per ridisegnare il potere, ma anche per limitarlo, diventa se vogliamo fare una metafora forzata una nuova dittatura standardizzata agli eccessi. Ovviamente, tutto ciò che avviene a livello sociale si riflette anche nelle politiche pubbliche, con governi e istituzioni che oscillano tra l’adozione e il rifiuto di misure ispirate a questi principi. La vera sfida, dunque, non è solo quella di promuovere l’inclusione, ma di farlo senza trasformarla in un'ideologia totalizzante, non è destra o sinistra, non è buono o cattivo.

Libri, film e opere d’arte vengono giudicati in base a criteri di correttezza che ignorano il contesto storico o culturale in cui sono stati creati. Questa tendenza tanto limita la libertà artisticaquanto impoverisce il patrimonio culturale; non possiamo paragonare la storia culturale del 1920 a quella del 2000. Non riguarda solo il linguaggio, si parla di cultura, si parla di storia. La società moderna non può e non deve paragonarsi a quella passata. Un manoscritto di epoca coloniale potrà mai riportare terminologie degli anni 2000? Il rischio è quello di creare una società incapace di guardare al passato senza deformarlo attraverso le lenti un po' offuscate dall’alone del presente.

È fondamentale riconoscere le ingiustizie e per cercare di eliminarle, ma senza trasformare ogni differenza di opinione in un conflitto interno. Il movimento woke, pone anche interrogativi esistenziali profondi. Che cosa significa essere davvero “risvegliati”?

Il risveglio  è sempre stato associato alla ricerca della verità.

 

Ma in un’epoca di polarizzazione, dove la verità è spezzettata in narrative contrapposte, il risveglio rischia di trasformarsi in assioma. Invece di cercare la verità, si afferma una visione ideologica che chiude le porte al dubbio e alla complessità. Il dibattito rimane fermo, immobile, guarda i due attori litigare senza arrivare ad una costruzione dei fatti reali ma dettati da ideologie non pervenute.

Bisogna evitare che il politically correct e la cultura woke diventino strumenti di potere, usati per imporre un’unica visione del mondo. Una società davvero inclusiva è quella che accoglie la diversità in tutte le sue forme, compresa quella delle idee, per quanto scomode siano.

Il politically correct e la cultura woke rappresentano due facce di una stessa medaglia: il desiderio di una società più giusta, un desiderio autentico, ideale e giusto, ma è giusto quando si parla di storia, di comunità passate, del passato autentico?. Come dimostra Ricolfi, quando questi movimenti si spingono troppo oltre, rischiano di tradire i loro stessi ideali, trasformandosi in strumenti di divisione anziché di inclusione, e quindi il motivo per cui sono nati, si perde completamente, vengono venduti al migliore offerente. La sfida per il futuro è quella di trovare un equilibrio, costruendo un dialogo che unisca anziché dividere, è una strategia al quanto complessa, a volte utopica.

Stiamo generando un contesto culturale in cui ogni parola viene scrutinata e reinterpretata, spesso con l’effetto di limitare la discussione e il pensiero critico, la cosa più preoccupante che potrebbe accadere è eliminare la storia,senza individuare un unico ideale, la correttezza metodologica della cultura.

Il movimento woke rappresenta una sfida e un’opportunità per ognuno di noi.

La sfida sta nel raccontare il fenomeno senza cedere alla tentazione di demonizzarlo o glorificarlo, mentre l’opportunità risiede nel creare spazi di dialogo autentico. È una sfida difficile, ma necessaria. Solo così potremo affrontare le inclinazioni culturali della nostra epoca senza cadere nelle trappole del fanatismo o della censura. Il futuro della società dipende dalla nostra capacità di affrontare le differenze, senza venderci al conformismo né al radicalismo. La storia è la nostra ancora, e dobbiamo rispettarla e salvaguardarla.

Solo così potremo costruire un mondo che sia davvero inclusivo e libero.

Il contesto odierno ci invita a riflettere su come possiamo costruire una società che non solo tolleri, ma accolga la pluralità della comunità, con la consapevolezza che solo attraverso il dialogo e l’empatia si può raggiungere una convivenza autentica.

Le domande che dobbiamo porci, ora,  sono di fondamentale importanza:

Possiamo essere una società inclusiva senza rinunciare al pensiero critico?

Possiamo costruire un mondo in cui la diversità è una ricchezza e non una minaccia?

La risposta è nelle nostre mani.

E tu, come immagini il futuro del dialogo?

Condividi questo articolo

×