Ne L’Epopea di Gilgamesh, il poema sumerico risalente al 3000 a. C. di cui sono stati trovati diversi frammenti, si narrano le lodi del grande eroe guerriero Gilgamesh, così forte da non trovare nessuno che possa sfidarlo e nessuna donna che possa resistergli. Egli si sente dunque solo e questa solitudine dura sino a quando non incontra Enkidu, il primo che lottando con lui non si lascia sconfiggere. Gilgamesh ed Enkidu divengono amici inseparabili e partono insieme per tante conquiste.
Ma a differenza di Gilgamesh, Enkidu è un selvaggio che vive con gli animali, è allevato dagli animali e attacca i villaggi degli uomini, distrugge i campi, assale il bestiame. Come fermare Enkidu che, non per cattiveria ma per inciviltà, distrugge tutto?
Le popolazioni, spaventate e arrabbiate, decidono di mandare a Enkidu una donna, una cortigiana. Per diversi giorni la donna gli sta vicino, lo attira a sé con la seduzione, gli insegna le arti dell’amore, gli fa conoscere il piacere di stare insieme, di parlare, gli fa gustare il vino e il cibo sapientemente cucinato e speziato.
Dopo diversi giorni Enkidu, sazio ed ebbro, torna tra le bestie feroci, ma queste lo scacciano, non lo riconoscono più. E anche lui non si riconosce in loro come prima. Enkidu si accorge di aver perso la sua natura selvaggia.
Si lamenta perché vorrebbe restare selvaggio, sporco, aggressivo, rude, ma ormai, irrimediabilmente contagiato, langue d’amore. “Cosa mi ha fatto questa femmina?” si domanda e domanda agli abitanti della città. La risposta che gli danno è che la donna gli ha insegnato la civiltà. Gli ha insegnato a lavarsi, a vestirsi a mangiare il cibo cotto, a utilizzare coppe per bere e utensili in ceramica per mangiare. Gli ha insegnato l’amore. Ne L’Epopea di Gilgamesh pertanto è la donna che strappa l’uomo dal suo essere selvaggio e lo fa entrare nel mondo della città, nella civiltà.
Veniamo ora al racconto di Adamo ed Eva che tutti conosciamo e al famoso passaggio in cui Eva convince Adamo a mangiare la mela proibita (e che ricalca, seppur in modo diverso, quel rapporto tra donna e civiltà citato prima). Qualcuno si è chiesto quali potessero essere i rapporti tra Adamo ed Eva? Lo ha fatto il grande scrittore Mark Twain che, ne Il diario di Adamo ed Eva, ha immaginato un possibile incontro e dialogo tra il primo uomo e la prima donna. Twain ci mostra un Adamo solitario e intento a costruire cose, a cacciare, pescare e una creatura femminile giovane e gioiosa che inizia a osservarlo da lontano, curiosa. Lo segue, lo osserva, si stupisce nel vedere come passa il suo tempo. Gli sembra un alieno e talvolta gli appare un po’ stupido, perché non fa niente di quello che farebbe lei, ma al contempo quello strano essere la incuriosisce, la attira. Desidera avvicinarlo. Ma poiché ha anche paura di lui inizia a seguirlo di nascosto, a spiarlo, credendosi non vista, sino a che lui la affronta e le chiede: “Credevi che non mi fossi accorto di te?”.
Twain nel racconto ci mostra quanto uomo e donna sono diversi in tutto. Eva si perde ad ammirare estatica la bellezza del Creato e insegna a Adamo a lasciarsi stupire. Ma soprattutto Eva inventa il linguaggio, dà i nomi alle cose. Eva vede un fiore, un animale, una pianta e subito sgorga da lei il nome giusto. C’è in lei un’inconscia creatività del tutto spontanea. E quando ha trovato un nome corre a dirlo a Adamo. Per scoprire, infine, che a lui, ciò che non ha un’utilità pratica, non interessa.
Tuttavia, l’ipotesi letteraria di Twain della donna che inventa il linguaggio è diventata anche una tesi scientifica, proposta dall’antropologa Dean Falk ("Lingua Madre. Cure materne e origine del linguaggio", Bollati Boringhieri, 2011). La Falk ha suggerito l’ipotesi che a inventare il linguaggio siano state le donne, ma non da sole. Il linguaggio sarebbe nato tra madri e neonati: dall’esigenza delle madri di far sentire la voce ai loro bambini. Una tesi che appare quasi naturale. Tutti noi abbiamo visto una mamma alle prese con il suo neonato e abbiamo sentito il forte calore empatico del loro dialogo impossibile, in una lingua che nessuno insegna ma che sgorga mentre lei lo lava, lo veste, lo culla, lo nutre.
Ecco allora che mito e ipotesi scientifica, come spesso accade, si incontrano. Il linguaggio originatosi dal fitto insieme di versi e gorgheggi – che mamma e bambino si scambiano, e che servono alla madre per comunicare empaticamente e rassicurarlo – sarebbe diventato, in seguito, il mezzo di uso comune per comunicare, utilizzato da tutta la tribù anche per definire piani di battaglia o lavorare insieme.