La forza di una firma: la Convenzione di Istanbul e la difesa delle donne

15 Maggio 2025



Quando pensiamo ai grandi cambiamenti della storia, immaginiamo piazze gremite, manifestazioni, rivoluzioni. Ma talvolta le trasformazioni più profonde avvengono in silenzio, nei palazzi delle istituzioni, attraverso trattati e convenzioni che riscrivono il modo in cui una società si guarda allo specchio. La Convenzione di Istanbul, adottata nel 2011 e primo strumento giuridicamente vincolante a livello europeo per contrastare la violenza contro le donne, è una di queste rivoluzioni silenziose.

Firmata a Istanbul, capitale simbolica di un ponte tra Oriente e Occidente, la Convenzione segna una svolta: riconosce che la violenza di genere non è un fatto privato, né una mera devianza, ma un problema strutturale, sociale, culturale. Riconosce che le donne, in quanto tali, sono oggetto di violenza da parte di uomini che si sentono legittimati da antichi privilegi o non sono in grado di accettare il diritto della donna di vivere liberamente e anche di lasciarli.

La violenza come struttura

Francesco Alberoni ci ha insegnato a guardare la società nei suoi movimenti profondi, nelle sue tensioni tra tradizione e cambiamento, tra ordine e trasformazione. Applicando questo sguardo alla questione della violenza sulle donne, si comprende che non si tratta di episodi isolati, ma di un sistema. Un sistema di dominio. La violenza domestica, lo stupro, il femminicidio sono le punte estreme di un iceberg fatto di diseguaglianze, stereotipi, controlli invisibili.

La Convenzione di Istanbul introduce un’idea fondamentale: la violenza contro le donne non è solo un crimine, ma una violazione dei diritti umani. E, come tale, deve essere affrontata non solo con pene esemplari, ma con politiche pubbliche, istruzione, prevenzione, formazione degli operatori, protezione delle vittime, raccolta sistematica dei dati.

Il valore simbolico della Turchia

Il fatto che la Convenzione sia stata firmata in un paese a maggioranza musulmana come la Turchia non è secondario. È, anzi, altamente simbolico. Per secoli, nel mondo islamico come in quello cristiano o di altre religioni, la figura femminile è stata subordinata a quella maschile. L'uomo come guida, la donna come proprietà. Non è un’esclusiva culturale di un solo continente. Ma firmare a Istanbul significa affermare che la difesa della donna non è un affare occidentale, ma universale: anche laddove persistano tradizioni patriarcali, si può intraprendere un cammino di cambiamento.

È significativo – e drammatico – che proprio la Turchia abbia poi abbandonato la Convenzione nel 2021, segnando una regressione. Ma la forza di quella firma resta. Resta come segnale che il diritto può sfidare la tradizione culturale: anche un paese con forti resistenze può un giorno scegliere di cambiare.

Perché serve uno strumento giuridico internazionale

Perché non bastano le leggi nazionali? Perché in molti paesi le leggi ci sono, ma non vengono applicate. Perché la violenza sulle donne assume forme diverse: dalle mutilazioni genitali alle violenze psicologiche, dal matrimonio forzato allo stalking. Perché solo uno strumento internazionale può stabilire standard comuni, obblighi precisi, e una rete di controllo e verifica.

La Convenzione impone ai paesi che la ratificano di agire a quattro livelli: prevenzione, protezione, punizione e politiche integrate. Non si limita a punire l'aggressore: vuole cambiare la mentalità, vuole formare insegnanti, forze dell’ordine, magistrati. Vuole che gli Stati si assumano la responsabilità di proteggere le donne, anche nelle famiglie, anche nei luoghi più intimi.

Un cambiamento che riguarda tutti

Parlare di Convenzione di Istanbul non significa parlare solo di donne. Significa parlare di noi tutti. Di una società più giusta, dove la forza non legittima il diritto, dove la libertà e la dignità non dipendono dal sesso con cui si nasce.

Francesco Alberoni avrebbe forse detto che siamo in presenza di un movimento collettivo. Un lento ma crescente desiderio di liberazione, che attraversa i confini, le lingue, le religioni. Un movimento che non grida, ma costruisce. Non distrugge, ma educa. E soprattutto: non odia, ma afferma. Basta guardare il movimento delle donne in Iran.

La violenza contro le donne non è un problema delle donne. È un problema dell’umanità. La Convenzione di Istanbul è la prova che la società può, se vuole, prendere una posizione chiara. E agire. Non è una bacchetta magica. Ma è un inizio. Ed è un dovere difenderla, soprattutto oggi.

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Giusy Cafari Panico

Giusy Cafari Panico, caporedattrice (email), laureata in Scienze Politiche a indirizzo politico internazionale presso l’Università di Pavia, è studiosa di geopolitica e di cambiamenti nella società. Collabora come sceneggiatrice con una casa cinematografica di Roma, è regista di documentari e scrive testi per il teatro. Una sua pièce: “Amaldi l’Italiano” è stata rappresentata al Globe del CERN di Ginevra, con l’introduzione di Fabiola Gianotti. Scrittrice e poetessa, è direttrice di una collana editoriale di poesia e giurata di premi letterari internazionali. Il suo ultimo romanzo è “La fidanzata d’America” ( Castelvecchi, 2020).

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