Riscoprire la vita di comunità

8 Maggio 2019



Riscoprire la vita di comunità
casa

Ognuno di noi ha una casa, piccola o grande, modesta o lussuosa, ma è pur sempre una casa.

Un luogo dove tornare dopo una giornata di lavoro. Gli inglesi giustamente hanno due vocaboli per definire ciò che noi chiamiamo semplicemente “casa”: “house” e “home”.

Distinguono benissimo la casa come edificio, che implica un punto di vista neutro, dalla propria casa a cui associano il senso di unicità e una componente affettiva.

La casa, intesa come “home” ha quindi un ruolo fondamentale nella nostra esistenza.

Deve costituire un rifugio stabile, uno spazio privato, intimo, dove vivere sicuri. Più l’essere umano si sente fragile, più necessita di un involucro che lo rassicuri e la casa diventa così una grande culla, un nido, un guscio. Giacomo Devoto, nel dizionario della lingua italiana, con la casa designa soprattutto il luogo dove ci si può celare, riparare, nascondere dal mondo esterno, visto come fonte di pericolo.

Nella maggior parte delle civiltà del passato, le città erano chiuse da mura a cui si accedeva attraverso delle porte sorvegliate, ed era in quelle porte che avveniva la selezione fra amici e nemici. Oggi, invece, le città sono completamente aperte al territorio esterno e ai “forestieri”. Anzi, non ci sono neppure più confini netti tra il nucleo urbano, il cuore della città, e le sue periferie, collegati in modo sempre più capillare da metropolitane, strade, ferrovie. Di conseguenza, le città non danno più un senso di sicurezza ai propri cittadini che ricreano le porte e le mura nelle loro abitazioni private sempre più chiuse, e anche se vicine le une alle altre, non comunicanti.

Inoltre, il nostro mondo è sempre più instabile e la realtà incomprensibile e inafferrabile tanta è la rapidità con cui muta. Diventa perciò più importante per ognuno di noi contrapporre al mondo esterno un luogo chiuso rassicurante dove potersi sentire padroni di gestire il nostro tempo, i nostri spazi, le nostre azioni, dove fermarsi, dove custodire la nostra famiglia e le nostre cose.

E se il termine tedesco wohnen (abitare) è affine all’antica parola gotica che significa “essere in pace”, anche nelle altre lingue i termini dimora, magione, maison, maniero e stanza, hanno lo stesso significato.

Nella città antica, esisteva un modo di socializzare fluido dove non vi era interruzione tra la casa e la strada e dove le piazze erano importanti centri di aggregazione.

Oggi, invece, la città sembra fatta di container. Sono container gli appartamenti, le macchine o le vetture dei trasporti pubblici, i luoghi di lavoro.

Trascorriamo la nostra vita soprattutto all’interno di questi container e dei nostri appartamenti secondo un ideale che è stato definito talvolta narcisistico e onnipotente, illudendosi di poter essere autonomi e autosufficienti.

E questo, paradossalmente, proprio quando dipendiamo come non mai nella storia da tutta una serie di servizi centralizzati (luce, acqua, gas, strade, ecc.) di cui non sapremmo fare a meno. Abitazioni nelle quali si parla come non mai di privacy, ma che sono, loro malgrado, continuamente e sempre più invase dal mondo esterno, dalla radio, dalla TV, dalla rete.

Ma se è vero che tendiamo a chiuderci sempre più nelle nostre abitazioni e che il mondo urbanizzato ci ha reso liberi, ma ci ha fatto anche perdere lo spirito di comunità di un tempo rendendoci al tempo stesso anonimi, schiavi del denaro e “stranieri” fra altri “stranieri”,  è altrettanto vero che le persone non sembrano rassegnarsi a questa condizione e cercano di ritrovare lo spirito che connota la vita del villaggio pur non rinunciando alla libertà conquistata e all’indipendenza dal giudizio altrui, condizioni divenute essenziali per il cittadino.

Perché questo rinnovato interesse per la vita di comunità dopo un periodo in cui prevaleva il perseguimento di interessi individuali razionalmente motivati e un sistema di relazioni artificiali impersonali, mediate dal mercato e fondate su un contratto?

Zygmunt Bauman affermava che «oggi la comunità è considerata e ricercata come un riparo dalle maree montanti della turbolenza globale, maree originate di norma in luoghi remoti che nessuna località può controllare in prima persona».

Chiuderci nella nostra abitazione supportati dalla famiglia (peraltro sempre meno numerosa e sempre più instabile) non sarebbe più sufficiente a rassicurarci e sostenerci.  

L’abitazione chiusa verso l‘esterno dove le persone avevano l’illusione di bastare a sé stesse, dopo la crisi economica degli ultimi anni e l’impossibilità delle amministrazioni pubbliche locali e del welfare statale di rispondere in modo soddisfacente ai bisogni dei cittadini, sono sorti condomini solidali e più socializzanti, Social housing, Cohousing, Social Street, e altre forme aggregative localizzate nell’ambito dell’abitazione, della strada, del gruppo di vicinato o del quartiere.

Attraverso le nuove tecnologie, app, smartphone, tablet, che favoriscono l’allestimento di bacheche, pagine informative e gruppi su Facebook, o su altri social network, le persone e le famiglie che vivono nello stesso edificio o nella stessa strada sono invogliate a incontrarsi. Per scambiarsi piccoli favori o semplicemente per fare nuove amicizie. Per organizzare cene ed eventi, per condividere biciclette o trapani, scambiare opinioni su ristoranti, medici o meccanici del quartiere.

Si sono scoperte nuove forme di socialità per rianimare un vicinato di quartiere palesemente in crisi.

In particolare nelle città medie e grandi, dove spesso le persone azzerano le relazioni face-to-face preferendo quelle virtuali.

Paradossalmente è proprio grazie a quegli stessi social network colpevoli di segregazione e isolamento che si è reso possibile per esempio il fenomeno Social Street.

Essi hanno infatti fornito l’opportunità di innescare una socialità diretta fra vicini fino ad allora sconosciuti; un’occasione per riemergere dalle proprie case, per riaprirsi al mondo. Per tornare a vivere con gli altri, intesi come alleati solidali nella riappropriazione degli spazi esterni comuni e pubblici. Spazi da trasformare in luoghi di vita collettiva e sociale invece che in semplici aree di connessione o di attraversamento.

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Rosantonietta Scramaglia

Laureata in Architettura e in Lingue e Letterature Straniere, ha conseguito il Dottorato in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale. Ha compiuto studi e svolto ricerche in Italia e in vari Paesi. Attualmente è Professore Associato in Sociologia presso l’Università IULM di Milano. È socia fondatrice di Istur – Istituto di Ricerche Francesco Alberoni. È autrice di oltre settanta pubblicazioni fra cui parecchie monografie.

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